Mario Pazzaglia - Vita di Dante Alighieri
Dante Alighieri nacque a Firenze da una famiglia guelfa della piccola nobiltà nel 1265. Condusse nella giovinezza vita elegante e «cortese », ma compi anche studi severi, manifestando fin d’allora quella passione per la cultura e la conquista della verità che rimase uno degli interessi dominanti della sua vita. Frequentò, come egli stesso ci attesta, Brunetto Latini, il cui illuminato magistero rettorico e, insieme, politico e civile faceva allora sentire il suo benefico influsso in Firenze, e l’Università di Bologna, che allora era la capitale vera e propria dell’alta cultura italiana. Da solo, invece, apprese l’arte del « dire parole per rima », e fu legato d’intima amicizia a Guido Cavalcanti, a Lapo Gianni, e, più tardi, a Cino da Pistoia, cioè ai poeti del cenacolo stilnovistico dei quali condivise l’ideale di aristocratica cultura e di raffinata poesia. Le rime più importanti di questo periodo furono scritte per Beatrice, figlia di Folco Portinari, che Dante amò fin dall’adolescenza, ricingendo questo amore dall’alone vago e gentile della spiritualità stilnovisica.
Con la morte di Beatrice (1290) ha inizio per Dante un periodo di crisi spirituale, ma anche il suo travaglioso inserimento da un lato in una problematica culturale e spirituale più complessa, dall’altra nella vita politica difficile e tormentata del Comune fiorentino.
Per quello che riguarda il dramma interiore di Dante, sappiamo da lui stesso che la morte di Beatrice lo gettò in un’angoscia profonda, che culminò, come sembrano attestare certe affermazioni del poeta (peraltro variamente interpretate dai critici), in una vera e propria crisi religiosa. Per alcuni anni, comunque, Dante s’immerse negli studi di filosofia, frequentando le « scuole dei religiosi » e le « disputazioni dei filosofanti »; lesse Boezio, Cicerone, Aristotele, S. Tommaso, mentre componeva in un ideale ritratto intimo, nella Vita nuova, la storia del suo amore per Beatrice, cioè la storia spirituale della sua giovinezza, e cominciava a scrivere rime morali e allegoriche. Egli iniziava cosi quella piena compenetrazione di calore di umani affetti e di ardore speculativo e filosofico, che caratterizza la sua poesia più grande, mentre imprimeva alla sua vasta cultura una rigorosa inquadratura sistematica che gli consentiva di guardare la realtà con occhio lucidamente consapevole e, al tempo stesso, con piglio sicuro e appassionato di riformatore. La passione per la verità, unita a quella per la. giustizia, la moralità sostenuta da solidi fondamenti razionali, insieme con la profondità e autenticità del sentimento religioso, rivolsero tutta la vita di Dante non a una contemplazione filosofica orgogliosa e solitaria, ma alla ricerca d’un miglioramento di se stesso e degli altri, che egli sentì intimamente connesso con la riforma delle strutture della società di Firenze e dell’umanità intera. Questo il suo ideale più grande, ed egli lo perseguì nella sua opera e nella sua vita di uomo e di cittadino.
Già nel 1289 lo troviamo fra i feditori a cavallo nella battaglia di Campaldino, contro i Ghibellini d’Arezzo, e poco dopo, nell’esercito fiorentino che tolse ai Pisani la fortezza di Caprona: ma la sua partecipazione più intensa alla vita politica fiorentina si ebbe a partire dal 1295.
Poiché gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, rivolti contro le consorterie nobiliari avevano, di recente, escluso i nobili dal governo del comune, riserbandolo solo a coloro che fossero iscritti a una corporazione d’arti e mestieri, Dante s’iscrisse a quella dei Medici e degli speziali (la medicina, allora, era uno studio assai vicino a quello della filosofia), e cominciò una brillante carriera politica che cu1minò nel 1300, quando, dal 15 giugno al 15 agosto, giunse alla suprema magistratura comunale, fu cioè nominato Priore.
Firenze era allora dilaniata dalla discordia fra due fazioni guelfe: i Bianchi, più accetti al popolo, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, e i Neri, più vicini alla classe nobiliare, capeggiati dalla famiglia dei Donati (cui apparteneva la moglie di Dante, Gemma, cugina di Corso, 1’audace e violento capo della fazione) nel contrasto fra le due fazioni si mescolavano interessi economici e odi privati, cupidigie e ambizioni individuali. Il papa Bonifacio VIJI s’inseriva nella lotta, desiderando di estendere, con l’aiuto dei Neri, la sua autorità politica su tutte le terre della Toscana.
Dante si sforzò di rimanere estraneo alla rissa politica, ispirandosi a un superiore ideale di giustizia e avendo costantemente di mira, di là da ogni interesse particolare, il bene della Città. Quando, ad esempio, nel 1300, scoppiò una rissa fra i capi delle due fazioni, convinse la Signoria a mandarli tutti al confino, sebbene ci fosse fra essi un suo intimo amico, il Cavalcanti. Ma soprattutto si oppose con fermezza intransigente alle mene di Bonifazio VIII, e per questo si venne accostando ai Bianchi.
Nell’ottobre del 1301, il pontefice inviava a Firenze Carlo di Valois, fratello del re di Francia, apparentemente come paciere, ma in realtà con l’incarico di debellare definitivamente i Bianchi e assicurare il trionfo dei Neri. Dante fu prescelto fra i tre ambasciatori inviati dal Comune a Bonifazio per placarlo. Non doveva rivedere più Firenze. Mentre infatti era trattenuto a Roma dal papa, Corso Donati e i Neri conquistarono definitivamente il potere, fra violenze, uccisioni, saccheggi. Seguirono i processi sommari contro gli avversari politici. Dante fu condannato in contumacia all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, a una multa, all’esilio per due anni, sotto le false accuse di baratteria, cioè di appropriazione indebita del pubblico denaro, di azioni ostili al papa e volte a turbare la pace della città. Non essendosi presentato a scolparsi (le accuse erano manifestamene infondate, ma presentarsi a Firenze, significava mettersi alla mercé di nemici implacabili) fu condannato a essere bruciato vivo se fosse caduto nelle mani del Comune.
Nei primi tempi dell’esilio, Dante partecipò agli sfortunati tentativi dei fuorusciti fiorentini di rientrare con la forza in Firenze; poi, disgustato dalla loro partigianeria e dalla loro ingiustizia, fece parte per se stesso. Cominciò cosi il suo lungo peregrinaggio per l’Italia, incalzato dalla povertà e dall’angosciosa nostalgia della patria diletta, proteso all’affannosa e spesso umiliante ricerca di una sistemazione come uomo di corte. Per un momento cercò di ottenere dai concittadini la grazia del ritorno, forse quando, con un provvedimento del 1303, i Fiorentini comminarono 1’esilio anche ai suoi figli non appena avessero raggiunto i quattordici anni; e forse per risollevare i1 proprio prestigio agli occhi dei giudici fiorentini scrisse fra il 1304 e il 1307 il Convivio e il De vulgari eloquentia, come testimonianza della propria cultura ed elevatezza morale. Le due opere rimasero però interrotte, e infranto il sogno del ritorno.
Ma proprio quando sembrava irrimediabilmente fiaccato, l’animo nobile del poeta si risollevò in tutta la sua grandezza e tramutò il proprio doloroso destino di esule nel segno di una vocazione e di una missione. Dante riuscì a vedere la propria vicenda in un contesto più vasto cd esemplare.
Il suo esilio divenne per lui il simbolo della presente corruzione di un mondo in preda agli odi, agli egoismi, alle passioni individuali, perché aveva abbandonato il cammino della giustizia, la strada segnata da Dio, che aveva stabilito due supreme autorità, il papa e 1’imperatore, proprio per consentire agli uomini di vincere la cupidigia e di conseguire la felicità e !a pace L’esilio allontanava così Dante da ogni considerazione municipalistica, ampliava i! suo sguardo da Firenze all’Italia e al mondo; soprattutto gli dava la certezza di essere martire e combattente della giustizia, di verità per questo i1 diritto di parlare agli uomini, di guidarli alla riconquista della giustizia, della verità e della pace. È questa la profonda vocazione profetica e riformatrice da cui nasce la Divina Commedia.
Nel 1310 la discesa in Italia di Arrigo VII, imperatore del Sacro Romano Impero, che intendeva riaffermare .la sua giurisdizione sulla Penisola, fece sperare a Dante una prossima attuazione del suo ideale. Egli inviò in questo tempo varie epistole, ai principi e popoli italiani, esortandoli ad accogliere colui che gli sembrava inviato da Dio per riportare la pace nella penisola martoriata dalle lotte fratricide, allo stesso Arrigo, a Firenze che organizzava contro l’Imperatore la resistenza dei comuni guelfi; e forse in questi anni scrisse la Monarchia, un trattato politico nel quale ribadiva appassionatamente le sue concezioni.
Ma nel 1313 Arrigo moriva in Italia senza essere riuscito a restaurare 1’autonrità dell’Impero e crollava 1’ultima speranza di Dante di rientrare in Firenze. Nel 1311 era stato escluso dall’amnistia di cui avevano beneficiato molti esuli, nel 1315 rifiutò di approfittare di un’altra, perché condizionata a un’ammissione, da parte sua, di colpevolezza, contraria alla sua dignità. Infine, sempre nel 1315, la signoria fiorentina ribadiva la condanna a morte contro di lui e contro i suoi figli.
Negli ultimi anni, Dante fu ospite prima di Can Grande della Scala, a Verona, poi di Guido Novello da Polenta, a Ravenna. In queste due città compì l’ultima parte della Commedia, le cui due prime cantiche erano terminate prima del 1314. A Verona, in una chiesa, lesse la Quaestio de aqua et terra, volta a dimostrare, secondo la fi1osofia del tempo, che in nessun punto della sua sfera l’acqua può essere più alta della superficie della terra emersa. Nel 1319 scrisse alcune Egloghe in versi latini a Giovanni del Virgilio, maestro dell’Università bolognese che lo aveva invitato a Bologna, difendendo la poesia in volgare e declinando l’invito col pretesto di oscuri pericoli che avrebbe incontrato in quella città.
Reduce da un’ambasceria per conto di Guido da Polenta, Dante morì a Ravenna il 14 settembre 1321.
Mario PAZZAGLIA, Gli Autori della letteratura italiana, Zanichelli, Bologna, 1972.