Canto V - Note
Poscia ch'io ebbi…
Dottore è etimologico dal latino doctus, cioè sapiente; alcuni commentatori lo hanno inteso invece derivato da ductor, «guida», che è meno probabile. E un tipico anacronismo medievale, frequente anche nell'arte figurativa, l'uso del termine cavalieri per definire gli eroi classici come Achille e Paride, accomunandoli così a Tristano. La terzina contiene una nozione importante: il senso di pietà che prende il personaggio-Dante alla vista di tanta morte e dannazione provocata dal dolce sentimento d'amore. Si tratta di quell’emozione che Dante autore ci aveva anticipato in Inf., II 5, ed è da intendersi proprio come partecipazione emotiva autentica del pellegrino, e che ha origine nell’importante esperienza analoga vissuta dall'uomo e dal letterato Dante (si noti, infatti, la presenza costante del pronome di prima persona: mio; mi). Senza questa pietà, senza cioè un'autentica commozione, non sarebbe possibile la purificazione del peccatore: non gli basterebbe per questo la distaccata e didascalica osservazione delle pene comminate ai dannati, compiuta superficialmente come visitando un museo. Come le anime infernali sono ben presenti e vive, personaggi completi e non riproduzioni iconografiche, così anche il pellegrino Dante è vivo e prova vere emozioni, in questo caso la pietà. È questa pietà che lo porta quasi allo smarrimento, per ora, ma che gli farà perdere completamente i sensi ai termine del canto. Così come sono i sentimenti, le emozioni a volte violente provate e manifestate da Dante per tutto il corso del viaggio a rendere la Commedia un capolavoro del genere narrativo, proiettandola ben ai di sopra di un qualsiasi poema allegorico. È indispensabile aggiungere tuttavia che pietà umana verso debolezze del tutto umane (il naturale sentimento d'amore, per di più esaltato dagli scrittori dell'epoca) non significa anche giustificazione: Dante è sempre pienamente consapevole di trovarsi di fronte a peccatori condannati da Dio per colpe indiscutibili. Associandosi da cristiano a questa condanna divina, pur provando pietà per i peccatori, egli combatte quella dolorosa guerra (Inf., II 4) interiore tra sentimenti, reazioni emotive e conquiste del pensiero razionale che lo porterà alla salvezza.
I' cominciai…
AI v. 78 i mena sta per «li mena», secondo un'abitudine frequente nell'italiano del Duecento. Da notare che il verbo, mena, è già stato usato al v. 43, per descrivere la violenza travolgente della bufera. Le due anime, Francesca e Paolo, attirano l'attenzione di Dante perché a differenza delle altre procedono in coppia, e sono trasportate dal vento probabilmente con maggiore velocità, tanto da apparire più leggere. Alcuni commentatori antichi (Landino, Vellutello) attribuiscono a questa leggerezza un segno di maggior gravità della pena: ritengono cioè che le due anime fossero più veloci perché trascinate dal vento con maggiore impeto e violenza, in rapporto a un più pesante peccato. Così il commento Casini-Barbi: «Osserva il Tommaseo, non avendo cercato di resistere all'impeto della passione, non sono essi in istato di opporre alcuna resistenza all'impeto del vento» (in Mazzoni I, 92). Potrebbe anche trattarsi di un segno di distinzione legato alla sfortunata vicenda dei due personaggi, che li carica di un valore esemplare: non un privilegio, ma un motivo ulteriore di attenzione e pietà. E la prima volta che Dante prende l'iniziativa di colloquiare personalmente con delle anime dannate: fin qui, aveva lasciato parlare sempre il protettivo Virgilio. Non casualmente, gli si rivolge chiamandolo poeta: come vedremo, l'episodio di Francesca ha molto a che vedere con la letteratura e soprattutto la poesia d'amore. Il sostantivo amor fa infatti la sua comparsa al v. 78: Paolo e Francesca, così come Tristano e Isotta, sono eternamente legati dalla loro nefasta passione, ma questa è diventata ora un tormento che li travolge, li mena per l'eternità. Se tutta la Commedia, nella definizione di Ferrucci 1990, è «poema del desiderio», possiamo affermare che Dante ci propone qui un commovente esempio di «desiderio malato», cioè di amore non acceso di virtù (Purg., XXII 11), non indirizzato a Dio. «Se le anime dei due amanti si rivolgono verso Dante è perché sono dal disio
chiamate (v. 82); quando Dante ripensa al loro peccato, esclama quanto disio l menò costoro al doloroso passo (vv. 113-14). È Dante che li prega di raccontare la storia dei loro dubbiosi disiri (v. 120), ed è Francesca che rievoca il disiato riso, cosicché il tono dell'episodio è raggiunto nella consonanza simpatetica fra colei che racconta e colui che ascolta per poter a sua volta raccontare» (Ferrucci 1990, 242).
Si tosto…
La terzina 79-81 insiste sulla condizione tormentosa delle due anime: in vita affannate (espressione tecnica nella letteratura amorosa, per indicare appunto le sofferenze di chi ama di un amore contrastato) dalla passione, adesso dal castigo eterno che questa provocò loro. L'altri del v. 81 è, naturalmente, Dio. La schiera ov’è Dido è il secondo gruppo di anime, paragonate a uno stormo di gru, morte di morte violenta a causa dell’amore (vv. 46-69). Didone, prima, non era stata nominata direttamente: ora il suo nonne è fatto per evocare la sua triste vicenda, degna di pietà come quella dei due amanti che volano appaiati. Il sintagma aere maligno del v. 86 richiama l'analogo riva malvagia di Inf., III 107: tutto ciò che è contenuto nell’Inferno è male, perché partecipa dell'assenza di Dio; in questo caso, inoltre, l'aere è maligno perché è la fonte della pena dei lussuriosi, il vento che li travolge. Il disio del v. 82 ricorda il latino desiderium, «rimpianto», «nostalgia», quindi con una sfumatura elegiaca, e analoghe immagini di colombe dovevano essere note a Dante dalla lettura dell’Eneide (V 213-217; VI 190-192), sono versi di indimenticabile bellezza. Dapprima storni, quindi gru, infine colombe: in un climax ascendente per grazia e dignità le anime dei lussuriosi vengono sempre, in questo cerchio in cui dominano l'aria e il volo, paragonate a uccelli. Con la coppia di Francesca e Paolo, che sembrano condividere l'istinto di innocenti colombe, la plumbea tempesta pare pacificarsi, permettendo quasi di dimenticare l'Inferno. È facile notare come da qui in poi il tono del canto si trasfiguri, offrendo immagini di rarefazione stilnovistica: l'elegante perifrasi mossi la voce ne è un primo esempio. Il campo semantico del desiderio amoroso, bagaglio usuale della letteratura dell'amore cortese, comincia a delinearsi in queste terzine : disio, voler, affettüoso, così come l'immagine delle colombe, simbolo per eccellenza del sentimento che lega gli amanti, sono anticipazioni sinfoniche del successivo «teorema» amoroso (vv. 100-107) di Francesca da Polenta. Da notare come sia stato l'interesse per l’amore che ancora li unisce, avvertito nella richiesta di Dante (sì forte fu l’affettuoso grido), a spingere la coppia di anime ad avvicinarsi, come se comprendessero ormai per l'eternità solo il linguaggio dell'amore che li ha portati alla perdizione.
O animal grazioso…
Animal è usato in senso etimologico, di «essere vivente»: anche l'anima dannata si rende conto che chi le parla è un uomo in carne e ossa. La coppia aggettivale seguente, grazioso e benigno, è direttamente trasferita dal linguaggio della letteratura cortese e della poesia stilnovistica nel discorso pronunciato da Francesca, che qui comincia (per le notizie sulla figura storica di Francesca, si veda la nota ai vv. 94-99). Non è una scelta casuale: permette a Dante di collocare il personaggio, o meglio ciò che questo rappresenta, in un preciso ambito, quello della letteratura che vedeva protagonista indiscusso l’amore, idealizzato ed esaltato come supremo sentimento dell'animo umano. Una concezione inaccettabile per il cristianissimo Dante autore della Commedia, anche se, anzi proprio perché, a sua volta aveva fatto parte della schiera dei rimatori stilnovisti. Le parole di Francesca da Rimini hanno una grande intensità cromatica: perso significa originariamente «persiano», e indica il colore delle stoffe importate dall'Oriente, cioè un porpora scuro, tendente decisamente al nero. Questa tinta cupa e indirettamente allusiva al sangue, alla morte violenta, si riflette nel successivo sanguigno, cioè «color di sangue», con cui le anime della schiera ov’è Dido colorarono il mondo, prima di finire nella rapina infernale. Una sfumatura angosciosa, dunque, sottesa alla dolcezza dominante nel lessico, nel ritmo musicalissimo del discorso, e con essa in forte contrasto. Inoltre, nella captatio benevolentiae rappresentata da questi versi, assume un grande rilievo proprio la parola pace (parola-rima ai v. 92, che tornerà anche più avanti, ai v. 99). «Pace e nient'altro, è la disperata ambizione di questa giovane signora che, con l'amante, tinse il mondo di sanguigno, e ora mulina furiosamente nell’aere perso del secondo cerchio d'inferno» Sermonti I, 70). Come si avverte dal suo tono improntato alla dolcezza e alla misura in quest’anima femminile è rimasta intatta la nobiltà di educazione che ne contraddistinse i modi durante la vita: addirittura - fatto paradossale se si pensa che ci troviamo di fronte a un’anima dannata precipitata nell'Inferno Francesca esprime il desiderio di formulare una preghiera. Ma dietro l'apparente serenità delle parole, e ancora in contrasto con essa, regna la disperazione (mal perverso). E c'è la consapevolezza di questa disperazione, di questa angoscia, nella richiesta di pace: Dante stilnovista ha attraversato a sua volta la condizione in cui eternamente è fissata Francesca da Rimini, e ha corso il rischio di perdere per sempre, come lei, la benevolenza di Dio. Lo spirito di Francesca ha intuito che Dante rispetta i principi della sua educazione cortese. Sa che la sua comprensione gli viene da un'esperienza che li accomuna e gli augura di non dover mai condividere anche la sua dannazione. È come se lo ammonisse a non lasciarsi, come lei, ingannare da quell’apparenza tutta positiva che la nobiltà dei modi esteriori fanno assumere all'amore nell’ambiente cortese: quest'apparenza nasconde il tragico rischio della morte violenta e, cosa ancora più grave, della perdizione.
Di quel che udire…
Giunti nel punto del cerchio dove già si trovavano Dante e Virgilio, anche Francesca e Paolo possono godere di una breve sospensione della pena fisica: la bufera cessa, o almeno si attenua, perché la volontà divina concede al pellegrino, per il bene della sua anima, la possibilità di un vero colloquio. Al v. 96 ci è avverbio di luogo col significato di «qui», come nelle espressioni «esserci», «starci». Continua la risposta di Francesca, soavemente intessuta di espressioni cortesi e, al momento di rievocare la giovinezza serena nella sua città (vv. 97-99), profondamente nostalgiche. Si noti come l'anima si assuma il ruolo di portavoce della coppia, parlando sempre a. plurale, mentre in realtà Paolo resterà per tutta il tempo in silenzio. Dal v. 97 è la perifrasi che tratteggia Ravenna (nel Medioevo molto più vicina al mare di quanto non sia oggi, e posta in mezzo a due rami del Po), città natale di Francesca, figlia di Guido da Polenta il Vecchio, che ne fu signore fino alla morte, avvenuta nel 1310. Nata probabilmente oltre 1a metà del secolo, tra il 1275 e il 1282 sposò Giovanni Malatesta, detto «il Ciotto», cioè lo zoppo», «lo sciancato», signore di Rimini. I matrimonio aveva lo scopo diplomatico di pacificare le due famiglie, in lotta da lungo tempo. Fin qui le notizie storiche. Il racconto d Dante ci fornisce il seguito della storia matrimoniale : innamoratasi del cognato, Paolo Malatesta, intrecciò con lui una relazione amorosa, fu scoperta in flagrante da Gianciotto e da lui uccisa con il suo amante, probabilmente tra il 1283 e il 1286. Dante quindi riporta, circa trent'anni più tardi, un episodio che dovette suscitare grande eco nell'Italia delle corti signorili del Duecento, perciò facilmente richiamabile alla memoria dei lettori suoi contemporanei, ma di cui non rimane traccia nelle cronache del tempo. Sappiamo infatti ben poco sull'unione d'amore che portò alla morte i due cognati. L'unico altro dato certo è che Paolo Malatesta risiedette a Firenze tra il 1282 e il 1283, con la carica di Capitano del Popolo : è possibile che Dante lo abbia conosciuto personalmente, ma in ogni caso la sua morte violenta e in così tragiche circostanze dovette colpire in modo particolare l'autore della Commedia, allora ventenne.
Amor, ch’al cor gentil ...
Celebri gli otto versi (100-107) che esprimono la teoria dell’innamoramento secondo la società cortese, che la divulgò con trattati, poemi e liriche di straordinaria popolarità (basti ricordare qui il celeberrimo trattato De amore del francese Andrea Cappellano, sorta di galateo amoroso noto in Italia col titolo di Gualtieri o di Andrea). Secondo questa teoria sarebbe stato inevitabile per un animo nobile l'atto dell'innamorarsi, indipendentemente dall'esistenza per uno dei due amanti di un vincolo coniugale, che poteva non aver nulla a che vedere con l'amore e che quindi non era degno del benché minimo rispetto. Per comprendere pienamente l'opinione di Dante in proposito, e quindi il senso di questo episodio, occorre leggere con attenzione le tre terzine: «Amore, che istantaneamente attecchisce in un animo naturalmente nobile, fece sì che costui (Paolo) si innamorasse della bellezza che, con la vita, mi fu tolta; e il modo in cui questo amore si manifestò ancora mi opprime e mi ferisce». Il v. 100, con la tipica personificazione (Amor), potrebbe benissimo essere all'inizio di una poesia stilnovistica, e Dante vuole proprio alludere a questa poetica, nella quale l'amore è sempre associato soltanto a sentimenti nobili, positivi, ed è sinonimo di elevazione spirituale, anche nel caso di adulterio. La bella persona è, naturalmente, il bell’aspetto fisico di Francesca: nelle convenzioni cortesi, fonte dell’amore era appunto la bellezza, e suo tramite lo sguardo. Di controversa interpretazione il v. 102: secondo alcuni critici, sarebbe un’allusione alla morte violenta, a causa della quale Francesca ora si trova all'Inferno. Ma la vera ragione per cui è dannata è la sua passione adulterina, e non certo la sua morte fisica. Inoltre, nei versi successivi, non c'è nessun altro riferimento al modo in cui fu uccisa, né al fatto che questa uccisione abbia lasciato segni visibili su di lei. È quindi più probabile l’interpretazione proposta sopra, che attribuisce all'amore di Paolo, poi ricambiato, la responsabilità della dannazione di entrambi.
Amor, ch'a nullo amato…
Dunque, all'amore di Paolo corrispose subito il medesimo sentimento da parte di Francesca. Al v. 104, con variatio lessicale, piacer è provenzalismo per «bellezza»: nulla di casuale in questa scelta, visto che nelle poesie provenzali l’amore era uno dei temi più diffusi. Perfettamente simmetrica alla precedente, la terzina comincia col sostantivo Amor, prosegue con l'esposizione di un concetto di ambiente cortese (l'inevitabile sorgere della passione nel cuore di chi si scopre oggetto d'amore), poi con una consecutiva, costrutto a sua volta tipico della sintassi stilnovistica, e finisce con la constatazione che gli effetti del sentimento che legò lei a Paolo perdurano ancora, destinati a perpetuarsi in eterno. Ma, come Dante è invitato a osservare (come vedi), tali effetti non sono certo quelli teorizzati dai trattati sull'amore o dalle stesse poesie degli stilnovisti.
Amor condusse...
Tragica conclusione del racconto, del resto deducibile dal luogo in cui la narratrice si trova, la schiera di coloro che sono morti per amore. La catena di dolorose conseguenze dell'innamoramento di Paolo e Francesca non si interrompe con la loto morte: prosegue anzi con la dannazione dei due adulteri e del loro uccisore, Gianciotto Malatesta, che alla fine della sua vita sarà precipitato nella Caina, il cerchio dei traditori dei parenti. Questo a causa della fiducia riposta nei canoni dell’amore cortese.
Quand'io intesi
Questi versi introducono l'elemento, importante sia dal punto di vista narrativo sia concettuale, del turbamento di Dante, che nasce da profonda commozione, da compassione autentica (come testimonia l'esclamazione Oh iasso, che sarebbe altrimenti eccessiva e difficilmente spiegabile). Commenta bene G. Reggio: «Rappresentazione plastica del personaggio Dante in uno dei momenti cruciali dell'episodio» (Bosco-Reggio I, 81). Si noti come l’idea che l'anima di Francesca parli sempre per entrambi i personaggi sia sottolineata dalla presenza di nomi e pronomi ai plurale (da lor, al v. 108; quell’anime). In queste parole di Dante personaggio si vede come il sorgere dell'innamoramento (dolci pensier, disio) abbia conseguenze gravide di negatività (doloroso passo), con effetto di forte antitesi, simmetrica a quella che avevamo già visto dominare nelle parole di Francesca (cfr. la nota 88). E si noti come compaia in modo significativo il verbo «menare», già usato (al v. 43 e poi ancora al 78) per descrivere l'azione travolgente della tempesta: l'amore di cui parla Dante non è già più il nobile sentimento cantato dagli stilnovisti, ma la furiosa passione generatrice di dolore, morte e dannazione che mai non resta nella pena del cerchio II, in cui per contrappasso si è trasformata. Proprio dal turbamento di Dante prende avvio Contini per chiarire la sostanza stessa dell'episodio: «Perché la complicità affettiva dell’io viaggiatore, pietà, svenimento, anzi tenerezza ancor prima che i due gli sian cogniti, e insieme la condanna del demiurgo giustiziere? E soltanto onestà mentale, o questo processo di partecipazione e obbiettività, di identità e differenziazione […] è la consueta dialettica dell'aldilà? […] L'Inferno (e il Purgatorio) di Dante è anche il luogo dei suoi peccati vinti, la sede delle sue tentazioni superate. Francesca, ci se ne scorda qualche volta, è il primo dannato che conversa con Dante; la lussuria, il primo vizio ch'egli stacca da sé, guarda e giudica. Che Dante superi Paolo, e che Beatrice superi Francesca [...]vuol dire che è oltrepassato lo stadio dell'amor cortese. Francesca è insomma una tappa, una tappa inferiore, simpatica (voglio dire simpatetica) e respinta, dell'itinerario dantesco, tappa della quale è superfluo cercar di distinguere se sia più letteraria o vitale» (Contini 1970a, 347-48).
Poi mi rivolsi...
Dante non risponde nemmeno alla domanda di Virgilio: fatto inusuale, che segnala un momento cruciale per il processo di purificazione del peccatore, che diventerà, grazie alla Commedia, messaggio universale di redenzione. Perché dunque tanta insistenza? Perché un tale interesse per il momento in cui l'amore, da vago desiderio irrealizzato, si trasformò' in relazione carnale e adulterina? Ci aiutano a trovare la risposta, ancora una volta, i numerosi stilemi del linguaggio stilnovistico (dolci sospiri, amore personificato, dubbiosi disiri) che Dante autore semina come sassolini bianchi per marcare il sentiero. La partecipazione, la pietà vera e propria verso Francesca e Paolo nascono in lui dalla consapevolezza di aver commesso lo stesso loro peccato, anche se non in misura così grave da meritare la dannazione : sono il segno di una comprensione profonda, verso chi provò i nostri stessi sentimenti, conobbe le nostre stesse emozioni (i dolci pensier e il disio, appunto, nominati ai v. 113). Non dimentichiamo che Dante fu stilnovista, uno dei maggiori poeti fiorentini a cantare l'indiscutibile altezza di Amore; e non dimentichiamo nemmeno che sua musa fu Beatrice, donna di esemplare virtù, ma pur sempre moglie di un altro. Grande differenza tra Dante e le due anime dannate sta nel fatto che l’uno non arrivò mai ai doloroso passo e gli altri sì; ma sta anche nel distacco e nel superamento dell’errore dell’uno (come testimonia tra l’atro la trasformazione del personaggio di Beatrice, divenuta nella Commedia più angelo o santa che donna), e invece nell'impossibilità degli altri di qualsiasi pentimento, a causa dell'improvvisa morte violenta. Non è dunque il caso di avere dubbi sulla pietà vera e propria di Dante: come potrebbe non avere pietà del peccato e della dannazione di suoi simili, sentiti per di piú ancora più vicini per le ragioni indicate, anche se questa pietà non scalfisce l'approvazione per la condanna divina? La violenta partecipazione, che provoca sofferenza anche fisica, è una tappa, come si è detto, del procedimento di distacco da parte di Dante da un proprio grave problema morale, è tappa del lungo travaglio che porta la sua anima alla redenzione e lo rende degno di farsi portavoce di un messaggio divino, valido per tutta l'umanità.
Quando leggemmo…
Ai vv. 134 e poi 136, in «basciare», è riprodotta graficamente la pronuncia toscana del verbo, Galeotto cioè Galehaut, personaggio romanzesco del ciclo arturiano, era siniscalco della regina Ginevra, e fu determinante nel realizzarsi della sua unione con Lancillotto, secondo il rituale cortese dell'investitura amorosa : l'amante, inferiore alla donna nella scala sociale, chiedeva infatti di essere ammesso al suo servizio, ma necessitava di un garante, un mallevadore, che avrebbe assistito allo svolgersi dell’investitura. La donna accettava l'amante come suo vassallo d’amore baciandolo. È questo il punto che vinse gli sfortunati amanti riminesi. Infatti al v. 138 Francesca ammette con eloquente pudore che i successivi incontri tra i due cognati non furono più dedicati alla lettura, bensì all’imitazione delle avventure amorose dei celebri amanti leggendari. Quindi il verso non va interpretato nel senso che, a causa di quel solo bacio che GianCiotto aveva sorpreso, i due fossero stati trucidati. Dalla lettura nasce la realtà' tragica: responsabile, anzi colpevole del peccato è quindi la letteratura cortese, e Dante la accusa direttamente, col distico finale (137-138) del discorso di Francesca. Tutta la letteratura che con nefasta leggerezza esalta qualsiasi unione d’amore, anche se evidentemente peccaminosa. viene compresa in questo atto d'accusa. In particolare, naturalmente, i romanzi del ciclo arturiano. ma anche la poesia cortese e lo stilnovo stesso, quando attribuiscono importanza tale al sentimento amoroso da offuscare la vera meta dell’amore dell’uomo: Dio. Merita di essere citata la lettura che del canto V fece Umberto Bosco (Bosco-Reggio I, 68-69): «Già i primi lettori scorsero nell’episodio una condanna delle letture dei romanzi cortesi (…). In ,verità la condanna di Dante va ben oltre: implica il ripensamento di quell’idealizzazione e giustificazione dell’amore che era propria di tutta la tradizione letteraria anteriore a lui, dai romanzi cortesi alla letteratura trobadorica sino alla stilnovistica (...). Si è parlato di "sconfessione" dello stilnovo. (...). Si tratta invece d'un ripensamento, che porta s una nuova interpretazione delle dottrine tradizionali sull’amore. (...). Francesca si rivolge a Dante (…) proprio in quanto stilnovista, per averne la comprensione. La ottiene, ma insieme con la condanna dei principi da lei messi innanzi (…). Ora egli sa che l’amore che eleva, che è segno di un’anima nobile, è un altro amore (...); è amore-virtù, non amore-passione: neppure una passione che si nutre, o s’illude di nutrirsi, di virtù. (…). Attraverso questa sua nuova interpretazione, è possibile a Dante il recupero dello stilnovo (...), che è alla base della Commedia, per il quale la bimba e poi la giovane fiorentina della Vita Nuova diventa la celeste Beatrice della Commedia».
Da : Dante ALIGHIERI, La commedia, a cura di Bianca GARAVELLI, Bompiani, Milano, 1993.