Canto V - Note

Verso 70

Poscia ch'io ebbi…

Dottore è etimologico dal latino doctus, cioè sapiente; alcuni commen­tatori lo hanno inteso invece derivato da ductor, «guida», che è meno probabile. E un tipico anacronismo medievale, frequente anche nell'arte figurativa, l'uso del termine cavalieri per definire gli eroi classici come Achille e Paride, accomunandoli così a Tristano. La terzina contiene una nozione importante: il senso di pietà che prende il personaggio-Dante alla vista di tanta morte e dannazione provocata dal dolce sentimento d'amore. Si tratta di quell’emozione che Dante autore ci aveva anticipato in Inf., II 5, ed è da intendersi proprio come partecipazione emotiva autentica del pellegrino, e che ha origine nell’importante espe­rienza analoga vissuta dall'uomo e dal letterato Dante (si noti, infatti, la presenza costante del pronome di prima persona: mio; mi). Sen­za questa pietà, senza cioè un'autentica com­mozione, non sarebbe possibile la purificazione del peccatore: non gli basterebbe per questo la distaccata e didascalica osservazione delle pene comminate ai dannati, compiuta super­ficialmente come visitando un museo. Come le anime infernali sono ben presenti e vive, personaggi completi e non riproduzioni icono­grafiche, così anche il pellegrino Dante è vivo e prova vere emozioni, in questo caso la pie­tà. È questa pietà che lo porta quasi allo smarrimento, per ora, ma che gli farà perdere com­pletamente i sensi ai termine del canto. Così come sono i sentimenti, le emozioni a volte violente provate e manifestate da Dante per tutto il corso del viaggio a rendere la Commedia un capolavoro del genere narrativo, proiettandola ben ai di sopra di un qualsiasi poema allegorico. È indispensabile aggiungere tutta­via che pietà umana verso debolezze del tutto umane (il naturale sentimento d'amore, per di più esaltato dagli scrittori dell'epoca) non si­gnifica anche giustificazione: Dante è sempre pienamente consapevole di trovarsi di fronte a peccatori condannati da Dio per colpe indiscutibili. Associandosi da cristiano a questa condanna divina, pur provando pietà per i pec­catori, egli combatte quella dolorosa guerra (Inf., II 4) interiore tra sentimenti, reazioni emotive e conquiste del pensiero razionale che lo porterà alla salvezza.

Verso 73

I' cominciai…

AI v. 78 i mena sta per «li mena», secondo un'abitudine frequente nell'italiano del Duecento. Da notare che il verbo, mena, è già stato usato al v. 43, per descrivere la violenza travolgente del­la bufera. Le due anime, Francesca e Paolo, attirano l'attenzione di Dante perché a diffe­renza delle altre procedono in coppia, e sono trasportate dal vento probabilmente con mag­giore velocità, tanto da apparire più leggere. Alcuni commentatori antichi (Landino, Vellutello) attribuiscono a questa leggerezza un segno di maggior gravità della pena: ritengono cioè che le due anime fossero più veloci per­ché trascinate dal vento con maggiore impeto e violenza, in rapporto a un più pesante pec­cato. Così il commento Casini-Barbi: «Osser­va il Tommaseo, non avendo cercato di resi­stere all'impeto della passione, non sono essi in istato di opporre alcuna resistenza all'im­peto del vento» (in Mazzoni I, 92). Potrebbe anche trattarsi di un segno di distinzione le­gato alla sfortunata vicenda dei due personaggi, che li carica di un valore esemplare: non un privilegio, ma un motivo ulteriore di atten­zione e pietà. E la prima volta che Dante pren­de l'iniziativa di colloquiare personalmente con delle anime dannate: fin qui, aveva lasciato parlare sempre il protettivo Virgilio. Non ca­sualmente, gli si rivolge chiamandolo poeta: co­me vedremo, l'episodio di Francesca ha molto a che vedere con la letteratura e soprattut­to la poesia d'amore. Il sostantivo amor fa in­fatti la sua comparsa al v. 78: Paolo e France­sca, così come Tristano e Isotta, sono eterna­mente legati dalla loro nefasta passione, ma questa è diventata ora un tormento che li tra­volge, li mena per l'eternità. Se tutta la Com­media, nella definizione di Ferrucci 1990, è «poema del desiderio», possiamo affermare che Dante ci propone qui un commovente esem­pio di «desiderio malato», cioè di amore non acceso di virtù (Purg., XXII 11), non indiriz­zato a Dio. «Se le anime dei due amanti si rivolgono verso Dante è perché sono dal disio

chiamate (v. 82); quando Dante ripensa al loro peccato, esclama quanto disio l menò costoro al doloroso passo (vv. 113-14). È Dante che li prega di raccontare la storia dei loro dubbiosi disiri (v. 120), ed è Francesca che rievoca il disiato riso, cosicché il tono dell'episodio è rag­giunto nella consonanza simpatetica fra colei che racconta e colui che ascolta per poter a sua volta raccontare» (Ferrucci 1990, 242).

Verso 79

Si tosto…

La terzina 79-81 insiste sulla con­dizione tormentosa delle due anime: in vita af­fannate (espressione tecnica nella letteratura amorosa, per indicare appunto le sofferenze di chi ama di un amore contrastato) dalla pas­sione, adesso dal castigo eterno che questa provocò loro. L'altri del v. 81 è, naturalmente, Dio. La schiera ov’è Dido è il secondo gruppo di anime, paragonate a uno stormo di gru, mor­te di morte violenta a causa dell’amore (vv. 46-69). Didone, prima, non era stata nominata direttamente: ora il suo nonne è fatto per evocare la sua triste vicenda, degna di pietà come quella dei due amanti che volano appaia­ti. Il sintagma aere maligno del v. 86 richiama l'analogo riva malvagia di Inf., III 107: tutto ciò che è contenuto nell’Inferno è male, perché partecipa dell'assenza di Dio; in questo ca­so, inoltre, l'aere è maligno perché è la fonte della pena dei lussuriosi, il vento che li travol­ge. Il disio del v. 82 ricorda il latino desiderium, «rimpianto», «nostalgia», quindi con una sfumatura elegiaca, e analoghe immagini di co­lombe dovevano essere note a Dante dalla let­tura dell’Eneide (V 213-217; VI 190-192), so­no versi di indimenticabile bellezza. Dapprima storni, quindi gru, infine colombe: in un climax ascendente per grazia e dignità le ani­me dei lussuriosi vengono sempre, in questo cerchio in cui dominano l'aria e il volo, para­gonate a uccelli. Con la coppia di Francesca e Paolo, che sembrano condividere l'istinto di innocenti colombe, la plumbea tempesta pare pacificarsi, permettendo quasi di dimenticare l'Inferno. È facile notare come da qui in poi il tono del canto si trasfiguri, offrendo imma­gini di rarefazione stilnovistica: l'elegante pe­rifrasi mossi la voce ne è un primo esempio. Il campo semantico del desiderio amoroso, bagaglio usuale della letteratura dell'amore cor­tese, comincia a delinearsi in queste terzine : disio, voler, affettüoso, così come l'immagine delle colombe, simbolo per eccellenza del sen­timento che lega gli amanti, sono anticipazio­ni sinfoniche del successivo «teorema» amo­roso (vv. 100-107) di Francesca da Polenta. Da notare come sia stato l'interesse per l’amore che ancora li unisce, av­vertito nella richiesta di Dante (sì forte fu l’affettuoso grido), a spingere la coppia di anime ad avvicinarsi, come se comprendessero ormai per l'eternità solo il linguaggio dell'amore che li ha portati alla perdizione.

Verso 88

O animal grazioso…

Animal è usato in senso etimologico, di «essere vivente»: anche l'anima dannata si rende conto che chi le parla è un uomo in carne e ossa. La coppia aggettiva­le seguente, grazioso e benigno, è direttamen­te trasferita dal linguaggio della letteratura cor­tese e della poesia stilnovistica nel discorso pro­nunciato da Francesca, che qui comincia (per le notizie sulla figura storica di Francesca, si veda la nota ai vv. 94-99). Non è una scelta casuale: permette a Dante di collocare il per­sonaggio, o meglio ciò che questo rappresen­ta, in un preciso ambito, quello della lettera­tura che vedeva protagonista indiscusso l’amore, idealizzato ed esaltato come supremo sentimento dell'animo umano. Una concezione inaccettabile per il cristianissimo Dante auto­re della Commedia, anche se, anzi proprio per­ché, a sua volta aveva fatto parte della schie­ra dei rimatori stilnovisti. Le parole di Fran­cesca da Rimini hanno una grande intensità cromatica: perso significa originariamente «persiano», e indica il colore delle stoffe importate dall'Oriente, cioè un porpora scuro, tenden­te decisamente al nero. Questa tinta cupa e indirettamente allusiva al sangue, alla morte violenta, si riflette nel successivo sanguigno, cioè «color di sangue», con cui le anime della schiera ov’è Dido colorarono il mondo, prima di finire nella rapina infernale. Una sfumatu­ra angosciosa, dunque, sottesa alla dolcezza dominante nel lessico, nel ritmo musicalissimo del discorso, e con essa in forte contrasto. Inoltre, nella captatio benevolentiae rappresentata da questi versi, assume un grande rilievo pro­prio la parola pace (parola-rima ai v. 92, che tornerà anche più avanti, ai v. 99). «Pace e nient'altro, è la disperata ambizione di que­sta giovane signora che, con l'amante, tinse il mondo di sanguigno, e ora mulina furiosamente nell’aere perso del secondo cerchio d'inferno» Sermonti I, 70). Come si avverte dal suo to­no improntato alla dolcezza e alla misura in quest’anima femminile è rimasta intatta la no­biltà di educazione che ne contraddistinse i modi durante la vita: addirittura - fatto pa­radossale se si pensa che ci troviamo di fronte a un’anima dannata precipitata nell'Inferno Francesca esprime il desiderio di formulare una preghiera. Ma dietro l'apparente serenità del­le parole, e ancora in contrasto con essa, re­gna la disperazione (mal perverso). E c'è la consapevolezza di questa disperazione, di questa angoscia, nella richiesta di pace: Dante stilnovista ha attraversato a sua volta la condizione in cui eternamente è fissata Francesca da Ri­mini, e ha corso il rischio di perdere per sem­pre, come lei, la benevolenza di Dio. Lo spiri­to di Francesca ha intuito che Dante rispetta i principi della sua educazione cortese. Sa che la sua comprensione gli viene da un'esperien­za che li accomuna e gli augura di non dover mai condividere anche la sua dannazione. È come se lo ammonisse a non lasciarsi, come lei, ingannare da quell’apparenza tutta positiva che la nobiltà dei modi esteriori fanno assumere all'amore nell’ambiente cortese: quest'appa­renza nasconde il tragico rischio della morte violenta e, cosa ancora più grave, della per­dizione.

Verso 94

Di quel che udire…

Giunti nel punto del cerchio dove già si trovavano Dante e Virgilio, anche Fran­cesca e Paolo possono godere di una breve so­spensione della pena fisica: la bufera cessa, o almeno si attenua, perché la volontà divina concede al pellegrino, per il bene della sua anima, la possibilità di un vero colloquio. Al v. 96 ci è avverbio di luogo col significato di «qui», come nelle espressioni «esserci», «star­ci». Continua la risposta di Francesca, soave­mente intessuta di espressioni cortesi e, al momento di rievocare la giovinezza serena nella sua città (vv. 97-99), profondamente nostal­giche. Si noti come l'anima si assuma il ruolo di portavoce della coppia, parlando sempre a. plurale, mentre in realtà Paolo resterà per tutta il tempo in silenzio. Dal v. 97 è la perifrasi che tratteggia Ravenna (nel Medioevo molto più vicina al mare di quanto non sia oggi, e posta in mezzo a due rami del Po), città natale di Francesca, figlia di Guido da Polenta il Vecchio, che ne fu signore fino alla morte, avvenuta nel 1310. Nata probabilmente oltre 1a metà del secolo, tra il 1275 e il 1282 sposò Giovanni Malatesta, detto «il Ciotto», cioè lo zoppo», «lo sciancato», signore di Rimini. I matrimonio aveva lo scopo diplomatico di pacificare le due famiglie, in lotta da lungo tempo. Fin qui le notizie storiche. Il racconto d Dante ci fornisce il seguito della storia matrimoniale : innamoratasi del cognato, Paolo Malatesta, intrecciò con lui una relazione amoro­sa, fu scoperta in flagrante da Gianciotto e da lui uccisa con il suo amante, probabilmente tra il 1283 e il 1286. Dante quindi riporta, circa trent'anni più tardi, un episodio che dovette suscitare grande eco nell'Italia delle corti si­gnorili del Duecento, perciò facilmente richia­mabile alla memoria dei lettori suoi contem­poranei, ma di cui non rimane traccia nelle cronache del tempo. Sappiamo infatti ben poco sull'unione d'amore che portò alla morte i due cognati. L'unico altro dato certo è che Paolo Malatesta risiedette a Firenze tra il 1282 e il 1283, con la carica di Capitano del Popolo : è possibile che Dante lo abbia conosciuto per­sonalmente, ma in ogni caso la sua morte vio­lenta e in così tragiche circostanze dovette colpire in modo particolare l'autore della Commedia, allora ventenne.

Verso 100

Amor, ch’al cor gentil ...

Celebri gli otto versi (100-107) che esprimono la teoria dell’innamoramento secon­do la società cortese, che la divulgò con trat­tati, poemi e liriche di straordinaria popolarità (basti ricordare qui il celeberrimo trattato De amore del francese Andrea Cappellano, sorta di galateo amoroso noto in Italia col titolo di Gualtieri o di Andrea). Secondo questa teoria sarebbe stato inevitabile per un animo nobile l'atto dell'innamorarsi, indipendentemente dall'esistenza per uno dei due amanti di un vincolo coniugale, che poteva non aver nulla a che vedere con l'amore e che quindi non era degno del benché minimo rispetto. Per comprendere pienamente l'opinione di Dante in proposito, e quindi il senso di questo episodio, occorre leggere con attenzione le tre terzine: «Amore, che istantaneamente attecchisce in un animo naturalmente nobile, fece sì che costui (Paolo) si innamorasse della bellezza che, con la vita, mi fu tolta; e il modo in cui questo amore si manifestò ancora mi opprime e mi ferisce». Il v. 100, con la tipica personificazione (Amor), potrebbe benissimo essere all'inizio di una poe­sia stilnovistica, e Dante vuole proprio alludere a questa poetica, nella quale l'amore è sempre associato soltanto a sentimen­ti nobili, positivi, ed è sinonimo di elevazio­ne spirituale, anche nel caso di adulterio. La bella persona è, naturalmente, il bell’aspetto fi­sico di Francesca: nelle convenzioni cortesi, fonte dell’amore era appunto la bellezza, e suo tramite lo sguardo. Di controversa interpre­tazione il v. 102: secondo alcuni critici, sareb­be un’allusione alla morte violenta, a causa della quale Francesca ora si trova all'Inferno. Ma la vera ragione per cui è dannata è la sua pas­sione adulterina, e non certo la sua morte fisica. Inoltre, nei versi successivi, non c'è nes­sun altro riferimento al modo in cui fu uccisa, né al fatto che questa uccisione abbia lasciato segni visibili su di lei. È quindi più probabile l’interpretazione proposta sopra, che attribuisce all'amore di Paolo, poi ricambiato, la re­sponsabilità della dannazione di entrambi.

Verso 103

Amor, ch'a nullo amato…

Dunque, all'amore di Paolo corrispose subito il mede­simo sentimento da parte di Francesca. Al v. 104, con variatio lessicale, piacer è provenza­lismo per «bellezza»: nulla di casuale in que­sta scelta, visto che nelle poesie provenzali l’amore era uno dei temi più diffusi. Perfetta­mente simmetrica alla precedente, la terzina comincia col sostantivo Amor, prosegue con l'esposizione di un concetto di ambiente cor­tese (l'inevitabile sorgere della passione nel cuore di chi si scopre oggetto d'amore), poi con una consecutiva, costrutto a sua volta tipico della sintassi stilnovistica, e finisce con la con­statazione che gli effetti del sentimento che legò lei a Paolo perdurano ancora, destinati a perpetuarsi in eterno. Ma, come Dante è in­vitato a osservare (come vedi), tali effetti non sono certo quelli teorizzati dai trattati sull'a­more o dalle stesse poesie degli stilnovisti.

Verso 106

Amor condusse...

Tragica conclusione del racconto, del resto deducibile dal luogo in cui la narra­trice si trova, la schiera di coloro che sono mor­ti per amore. La catena di dolorose conseguen­ze dell'innamoramento di Paolo e Francesca non si interrompe con la loto morte: prosegue anzi con la dannazione dei due adulteri e del loro uccisore, Gianciotto Malatesta, che alla fine della sua vita sarà precipitato nella Cai­na, il cerchio dei traditori dei parenti. Que­sto a causa della fiducia riposta nei canoni del­l’amore cortese.

Verso 109

Quand'io intesi

Questi versi intro­ducono l'elemento, importante sia dal punto di vista narrativo sia concettuale, del turba­mento di Dante, che nasce da profonda com­mozione, da compassione autentica (come te­stimonia l'esclamazione Oh iasso, che sareb­be altrimenti eccessiva e difficilmente spiega­bile). Commenta bene G. Reggio: «Rappresen­tazione plastica del personaggio Dante in uno dei momenti cruciali dell'episodio» (Bosco-Reggio I, 81). Si noti come l’idea che l'ani­ma di Francesca parli sempre per entrambi i personaggi sia sottolineata dalla presenza di nomi e pronomi ai plurale (da lor, al v. 108; quell’anime). In queste parole di Dante personaggio si vede come il sorgere dell'innamo­ramento (dolci pensier, disio) abbia conseguenze gravide di negatività (doloroso passo), con ef­fetto di forte antitesi, simmetrica a quella che avevamo già visto dominare nelle parole di Francesca (cfr. la nota 88). E si noti come compaia in modo significativo il verbo «me­nare», già usato (al v. 43 e poi ancora al 78) per descrivere l'azione travolgente della tem­pesta: l'amore di cui parla Dante non è già più il nobile sentimento cantato dagli stilnovisti, ma la furiosa passione generatrice di dolore, morte e dannazione che mai non resta nella pena del cerchio II, in cui per contrappasso si è trasformata. Proprio dal turbamento di Dante prende avvio Contini per chiarire la sostanza stessa dell'episodio: «Perché la complicità af­fettiva dell’io viaggiatore, pietà, svenimen­to, anzi tenerezza ancor prima che i due gli sian cogniti, e insieme la condanna del demiur­go giustiziere? E soltanto onestà mentale, o questo processo di partecipazione e obbiettività, di identità e differenziazione […] è la consueta dialettica dell'aldilà? […] L'Inferno (e il Purgatorio) di Dante è anche il luogo dei suoi peccati vinti, la sede delle sue tentazioni superate. Francesca, ci se ne scorda qualche volta, è il primo dannato che conversa con Dante; la lussuria, il primo vizio ch'egli stac­ca da sé, guarda e giudica. Che Dante superi Paolo, e che Beatrice superi Francesca [...]vuol dire che è oltrepassato lo stadio dell'amor cor­tese. Francesca è insomma una tappa, una tappa inferiore, simpatica (voglio dire simpa­tetica) e respinta, dell'itinerario dantesco, tappa della quale è superfluo cercar di distingue­re se sia più letteraria o vitale» (Contini 1970a, 347-48).

Verso 115

Poi mi rivolsi...

Dante non risponde nemmeno alla domanda di Virgilio: fatto inusuale, che segnala un mo­mento cruciale per il processo di purificazione del peccatore, che diventerà, grazie alla Commedia, messaggio universale di redenzio­ne. Perché dunque tanta insistenza? Perché un tale interesse per il momento in cui l'amore, da vago desiderio irrealizzato, si trasformò' in relazione carnale e adulterina? Ci aiutano a tro­vare la risposta, ancora una volta, i numerosi stilemi del linguaggio stilnovistico (dolci sospiri, amore personificato, dubbiosi disiri) che Dante autore semina come sassolini bianchi per marcare il sentiero. La partecipazione, la pie­tà vera e propria verso Francesca e Paolo nascono in lui dalla consapevolezza di aver com­messo lo stesso loro peccato, anche se non in misura così grave da meritare la dannazione : sono il segno di una comprensione profonda, verso chi provò i nostri stessi sentimenti, co­nobbe le nostre stesse emozioni (i dolci pen­sier e il disio, appunto, nominati ai v. 113). Non dimentichiamo che Dante fu stilnovista, uno dei maggiori poeti fiorentini a cantare l'in­discutibile altezza di Amore; e non dimenti­chiamo nemmeno che sua musa fu Beatrice, donna di esemplare virtù, ma pur sempre mo­glie di un altro. Grande differenza tra Dante e le due anime dannate sta nel fatto che l’uno non arrivò mai ai doloroso passo e gli altri sì; ma sta anche nel distacco e nel superamento dell’errore dell’uno (come testimonia tra l’atro la trasformazione del personaggio di Bea­trice, divenuta nella Commedia più angelo o santa che donna), e invece nell'impossibilità degli altri di qualsiasi pentimento, a causa del­l'improvvisa morte violenta. Non è dunque il caso di avere dubbi sulla pietà vera e propria di Dante: come potrebbe non avere pietà del peccato e della dannazione di suoi simili, sen­titi per di piú ancora più vicini per le ragioni indicate, anche se questa pietà non scalfisce l'approvazione per la condanna divina? La vio­lenta partecipazione, che provoca sofferenza anche fisica, è una tappa, come si è detto, del procedimento di distacco da parte di Dante da un proprio grave problema morale, è tappa del lungo travaglio che porta la sua anima alla re­denzione e lo rende degno di farsi portavoce di un messaggio divino, valido per tutta l'u­manità.

Verso 133

Quando leggemmo…

Ai vv. 134 e poi 136, in «basciare», è riprodotta graficamente la pronuncia tosca­na del verbo, Galeotto cioè Galehaut, personaggio romanzesco del ciclo arturiano, era siniscalco della regina Ginevra, e fu determinan­te nel realizzarsi della sua unione con Lancillotto, secondo il rituale cortese dell'investitura amorosa : l'amante, inferiore alla donna nella scala sociale, chiedeva infatti di essere ammes­so al suo servizio, ma necessitava di un garan­te, un mallevadore, che avrebbe assistito allo svolgersi dell’investitura. La donna accettava l'amante come suo vassallo d’amore baciandolo. È questo il punto che vinse gli sfortunati amanti riminesi. Infatti al v. 138 Francesca ammette con eloquente pudore che i successi­vi incontri tra i due cognati non furono più dedicati alla lettura, bensì all’imitazione delle avventure amorose dei celebri amanti leggendari. Quindi il verso non va interpretato nel senso che, a causa di quel solo bacio che GianCiotto aveva sorpreso, i due fossero stati trucidati. Dalla lettura nasce la realtà' tragica: responsabile, anzi colpevole del peccato è quindi la letteratura cortese, e Dante la accusa di­rettamente, col distico finale (137-138) del di­scorso di Francesca. Tutta la letteratura che con nefasta leggerezza esalta qualsiasi unione d’amore, anche se evidentemente peccamino­sa. viene compresa in questo atto d'accusa. In particolare, naturalmente, i romanzi del ciclo arturiano. ma anche la poesia cortese e lo stilnovo stesso, quando attribuiscono importan­za tale al sentimento amoroso da offuscare la vera meta dell’amore dell’uomo: Dio. Merita di essere citata la lettura che del canto V fece Umberto Bosco (Bosco-Reggio I, 68-69): «Già i primi lettori scorsero nell’episodio una con­danna delle letture dei romanzi cortesi (…). In ,verità la condanna di Dante va ben oltre: implica il ripensamento di quell’idealizzazione e giustificazione dell’amore che era propria di tutta la tradizione letteraria anteriore a lui, dai romanzi cortesi alla letteratura trobadorica si­no alla stilnovistica (...). Si è parlato di "scon­fessione" dello stilnovo. (...). Si tratta invece d'un ripensamento, che porta s una nuova in­terpretazione delle dottrine tradizionali sull’amore. (...). Francesca si rivolge a Dante (…) proprio in quanto stilnovista, per averne la comprensione. La ottiene, ma insieme con la condanna dei principi da lei messi innanzi (…). Ora egli sa che l’amore che eleva, che è segno di un’anima nobile, è un altro amore (...); è amore-virtù, non amore-passione: neppure una passione che si nutre, o s’illude di nutrirsi, di virtù. (…). Attraverso questa sua nuova inter­pretazione, è possibile a Dante il recupero dello stilnovo (...), che è alla base della Commedia, per il quale la bimba e poi la giovane fiorentina della Vita Nuova diventa la celeste Beatri­ce della Commedia».

 

 

Da : Dante ALIGHIERI, La commedia, a cura di Bianca GARAVELLI, Bompiani, Milano, 1993.