Canto XXVI - Note

 

Verso 85

Lo maggior corno…

Lo maggior corno della fiamma assume sempre più connotati umani : prima paragonato a un fuoco, è poi simile a una lingua umana che si muove per articolare le parole. Ulisse si trova nel maggior corno, cioè nella lingua più grande della fiamma, forse per­ché i suoi peccati furono più gravi, o forse per­ché la sua fama è più grande di quella di Dio­mede. La fiamma viene detta antica perché ap­partenente ormai all'Inferno da un tempo eter­namente lungo; è un aggettivo che abbiamo già incontrato con questo valore, per esempio in Inf., II 102, riferito a Rachele, anima bea­ta che, già da molti secoli rispetto al tempo di Dante, occupa un posta in Paradiso. Co­munque “antica e maggior creano subito un’at­mosfera di nobiltà e di grandezza, che la di­stanza nel tempo di fatti narrati accresce, e che viene ulteriormente sottolineata dalla solennità di crolarsi, dalla indeterminatezza di mormo­rando, dalla sforzo di affatica” (Cataldi-Luperini 1989, 134). Un preludio solenne alla risposta di Ulisse, del resto sollecitata dalla richiesta di Virgilio, altrettanto solenne. Comincia qui il racconto di Ulisse, che si protrae fi­no alla fine del canto e comprende gli ultimi avvenimenti della sua vita terrena, di cui non sono fonte diretta né i poemi omerici né quello virgiliano. Come si vedrà, il finale della vi­cenda dell'eroe è ben diverso da quello ome­rico: Ulisse non ritorna a Itaca; non viene uc­ciso qui da Telegono, ma riparte per mare e muore in un naufragio. Altro elemento che in Omero è assente: il passaggio delle Colonne d'Ercole, segnale di un confine che all'uomo era proibito oltrepassare. sono comunque fitte le citazioni dai poemi classici, a cominciare

dalla tessera toponomastica Gaeta, nome at­tribuito da Enea al promontorio dell'attuale costa laziale, per ricordare in eterno la sua nu­trice, Caieta (Eneide, VII 1-2), che qui era morta. Circe, secondo la leggenda, aveva la sua abitazione nei pressi di Gaeta, nella località oggi chiamata appunto promontorio Circeo. Era fi­glia del Sole e di Perse, e aveva grandi poteri magici; grazie alla sua non comune avvenen­za, affascinava gli uomini e poi li trasformava in maiali. Segue l'elenco degli affetti famigliari che Ulisse abbandona per quello che sarà il suo ultima viaggio: il figlio Telemaco (v. 94), il padre Laerte (vv. 94-95), la moglie Penelope (vv. 95-96), verso la quale Ulisse sente ad­dirittura il peso del dovere di marito (tanto che parla di debito amore che davea rendere felice Penelope). Ma è più forte questo ardore […] a divenir del mondo esperto, questo fuoco che spinge verso la conoscenza, e che lo lascerà quasi completamente solo, o meglio, come vedremo ai vv. 101-102, con una compagna / picciola, una «compagnia», con forma frequente nel toscano antica, di uomini che condividono la sua bramosia e non lo abbandonano (ma il verbo usato sarà ancora una volta un latini­smo, da diserere).

Verso 100

ma misi me…

Dunque Dante descrive, con una famosa allitterazione (ma misi me) il suo affidarsi all'i­gnoto. Viaggi al di là delle Colonne d'Ercole ai tempi di Dante erano stati tentati, e lo studioso John A. Scott 11977, 118) si è chiesto per primo come mai qui Dante, per parlare del­la presunzione di un viaggio mentale al di là dei limiti impasti all'uomo, abbia scelto Ulis­se e non per esempio dei navigatori famosi al suo tempo, come i fratelli Vivaldi che oltrepassarono le Colonne d'Ercole e non tornarono più. Ulisse è infatti l'unico personaggio di rilievo dell'Inferno che non appartiene all’Italia duecentesca. Secondo Maria Corti, la scel­ta di un protagonista immaginario proprio in questi punto è stata compiuta: «per conferirgli anche una funzione squisitamente simbolica.(…) l’interpretazione figurale, che a ottima detta di Auerhach pone “una cosa per l’altra in quanto l’una rappresenta e significa l’altra” ha maggiori possibilità di realizzarsi a fondo in un personaggio che già sia al di fuori della storicità, appartenente all’enciclopedia culturale dell'immaginario» (Corti 1981, 86). Per quest'ultimo episodio della vita di Ulisse, come ha visto per la prima volta Maria Corti (1993), Dante mostra di conoscere una fonte, a noi ignota, ma certamente di origine greca, che contiene l'indicazione di una rotta mari­na notissima nel mondo greco appunto, una rotta che evitava il pericolo dei pirati etruschi e liguri e sfruttava venti e correnti naturali: la cosiddetta Via Hêrakleia, la quale partiva da Cuma, l’attuale Gaeta appunto, toccava la Sardegna, le isole Baleari e terminava al di là dello stretto di Gibilterra, che non era affatto un passaggio vietato per i naviganti greci. È proprio il percorso della nave di Ulisse, che Dante descriverà con tanta precisione ai vv. 103-111. Infatti, l'arrivo di Ulisse alle Colon­ne d’Ercole è presente come un fatto normale nella tradizione dei geografi greci a partire dal I secolo d.C. (per esempio nel Periplon di Annone): addirittura ci sono testimonianze del­l'esistenza di una città chiamata Odysseîa, dal nome di Ulisse, sull'attuale stretto di Gibilterra. Come vedremo, l'origine del divieto di superare le Colonne d’Ercole, ignoto ai Gre­ci, e usata da Dante per i suoi scapi allegorici, è da cercare nella tradizione araba (Corti 1993, cap. V): un'altra conferma della tecnica di lavoro di Dante, capace di mescolare in­sieme con grande creatività le più disparate fonti, e di piegarle tutte alle sue idee. Forse, infatti, solo il naufragio dell’eroe è di invenzione dantesca, come allegoria del «naufragio intellettuale» dei filosofi che usano l'ingegno senza virtù. Ecco perché la figura di Ulisse è così importante per Dante: egli rappresenta l'inquietudine intellettuale, la curiosità, la sete di conoscenza. Il viaggio di Ulisse è per l’alto mare aperto, un'altra immagine metaforica, strettamente collegata, come abbiamo visto, a quella della «lingua di fuoco» e, come vedremo in seguito, del folle volo (v. 125). La navi­gazione per mare è genericamente simbolo di un’importante impresa umana, ed è metafora usata da filosofi come Agostino, Alberto Ma­gno e Tommaso d’Aquino. Ma quella della navigazione è anche la simbologia che indica l’universo della scrittura e «un’attività speculativa (…), un percorso della ragione filosofica in qualche specifica direzione» (Corti 1989, 482). Vedremo più da vicino questo significa­to della metafora, che riguarda strettamente Ulisse, nelle note successive.

Verso 103

L'un lito e l'altro…

I luoghi geografici citati nel discorso di Ulisse rappresentavano, per l’uomo del Medioevo, i confini del mondo, erano l’idea stessa di lontananza e di ignoto. L'elenco tocca il Mediterraneo occidentale, con i litorali opposti d'Europa e d'Africa, e le grandi isole, la Sardegna e l'altre che quel mare intorno bagna (v. 105), le Baleari: insomma, la Via Hêrakleia, notissima ai marinai greci. Ma nel viaggio dell'eroe tutto perde sempre più i connotati reali: gli ultimi nomi noti, le città di Sibilia e Setta, sono armai la­sciate alle spalle. Del resto, il senso dell'im­mensità degli spazi, che segnano la sostanza stessa del viaggio di Ulisse, è tutto sintetizza­to nel ritmo del v. 100, dove segnaliamo an­che il numero notevole di vocali «a»: per l'A!to mAre Aperto. Contrapposta a questa immen­sità senza limiti è proprio la limitatezza della compagna/picciola (vv. 101-102) di cui dispone l’eroe, simbolo essa stessa delle deboli for­ze, del tutto inadatte, sulle quali egli preten­de presuntuosamente di contare. Ciò che re­sta davanti è la foce stretta, cioè lo stretto di Gibilterra, chiamato nell'antichità e ancora al tempo di Dante «freto di Gade», e i riguardi, i segni che ammoniscono a non andare più' oltre. Dante sovrappone qui due traduzioni: quella greca della Via Hêrakleia, per la quale era un fatto consueto e franliare oltrepassare queste Colonne; e un’altra araba, posteriore a quella greca, giunta poi, attraverso la dominazione araba, nella cultura castigliana, per cui passare al di là del limite era severamente vietato. Col nome di «Colonne d'Ercole» era no­to ai tempi dei Greci forse un tempio a Ercole, di origine fenicia; oppure, forse, «Colonne d’Ercole» erano detti i due monti di Calpe sulla sponda europea e di Abila su quella africana: in ogni caso, nella tradizione greca non esiste alcun cenno a un divieto di passaggio inciso qui sopra. Anzi, come testimonia la tradizione dei geografi in lingua greca, i navigatori elle­nici avevano instaurata una fitta rete di scambi commerciali al di là delle Colonne d’Ercole con i popoli degli attuali Portogallo e Isole del Capo Verde: fu la cultura medievale, in seguito, a «dimenticare» questi viaggi e queste conoscenze geografiche, che evidentemente Dante re­cupera da una fonte per noi perduta. Furono gli Arabi, a partire probabilmente dal secolo VIII, a inventare questa divieto, per liberarsi di scomodi concorrenti e pericolosi nemici, ponendo addirittura una statua gigantesca a guar­dia dello stretto, con le braccia atteggiate in modo da invitare a fermarsi e a remare indie­tro. E sempre di origine araba è la leggenda di un «monte» in mezzo all’Oceano, sede per quel popolo del Paradiso: la somiglianza con l'isola del Purgatorio, che reca in cima il Paradiso terrestre, è evidente (Corti 1993). Ma per Dante il superamento delle Colonne d’Ercole possiede soprattutto una forte simbologia filosofica ed esistenziale; il fatto che Ulis­se voglia superare questo limite imposto all’uomo, è il corrispettivo allegorico della trasgressione filosofica ai limiti imposti alla conoscenza umana, una ribellione al controllo della Grazia divina, un’esplorazione del sapere compiuta con la presunzione di usare le sale forze della razionalità.

Verso 112

''O frati'', dissi…

Il discorso di Ulisse è bre­ve, incisivo, teso e incalzante; tocca abilmen­te le corde più profonde degli animi dei suoi compagni: la comunanza di vita lungamente protratta, che ha creata fra loro quella fusione di intenti e di sentimenti che può permettere al loro capo di chiamarli frati; la frenesia nella ricerca della conoscenza; lo stimalo ulteriore costituito dalla vastità dell'oceano e dai cento milia/perigli che hanno dovuto affrontare insieme. Tanto più che il tempo che resta loro è ormai poco, perché la vita sensibile, i sensi di Ulisse e dei suoi sono giunti alla fine. A conclusione del discorso, l’argomento più importante.. la semenza, la natura dell’uomo, che si distingue dagli altri animali per il suo bisogno di conoscenza, di migliorare se stesso. Questo tema in sé non contrasta coi dogmi del cristianesimo, ma parte da un presupposto scagliato: che l’uomo da solo passa raggiungere questo binomio di virtute e canoscenza. Il tutto è espresso con l'uso sapiente della paratassi e dei latinismi (milia; il costrutto ch'è del rimanente derivato dal latino quae de reliqua est; vigilia), che sostengono la tensione del momento e l'epica importanza dei temi espressi. Il mondo sanza gente è, secondo la credenza dei tempi di Dante, l’emisfero opposto a quello di Gerusalemme, che non ospitava terre emerse se non, secondo Dante, la montagna del Purgatorio, ma era completamente coperto dalle acque dell’Oceano. sono questi toni epici che hanno fatto considerare a Hollander il brano di Ulisse «la "mini-epopea" più seducente della Commedia» (Hollander 1989, 100). Ma nonostante i debiti stilistici con l'epica, la fonte diretta di queste ardenti parole di Ulisse, come ha scoperto Maria Corti (soprattutto 1993), non è un poema epico, né un testo leggendario tardo che riporti la fine di Ulisse. A conferma del ruolo squisitamente simbolico di Ulisse, la fonte è il testo di un filosofo danese che insegnò all'Università di Parigi nel XIII secolo, e che fu condannato come eretico dal­la Chiesa, Boezio di Dacia. I punti di contat­ta sono innanzitutto tematici, ma anche stili­stici, specialmente con i vv. 119-120. (…)Ecco, dal testo di Boezio di Dacia, i passi che ritornano in Dante: «La Natura fa nascere l'uomo imperfet­to, e sembra che l'uomo senza la conoscenza sia come un animale bruto [...]. La felicità nella vita consiste in queste tre cose: nella ricerca del bene e nella conoscenza della verità e nel­la gioia che deriva da entrambe. E questo è il più grande bene per la specie umana» (Modi significandi, Quaestio V, 23, 70-74; 24, 79-84): I punti di contatto sono chiari: quello che in Boezio è la species in Dante è la semenza; il sin­tagma quasi brutum animal di Boezio diventa come bruti; infine, il concetto di vita beata, cioè di felicità che viene dalla conoscenza, sarà espressa al v. 136, dalla frase Noi ci allegrammo, una gioia di breve durata, perché nata dal­la ribellione a Dio e quindi destinata al naufragio (Corti 1993). Dunque, Dante doveva condannare il pensiero di Boezio perché con­trario all'ortodossia religiosa. Ma l’ammirazione intellettuale per il sua pensiero resta: Ulis­se è sì dannato in eterno, ma grandeggiano in questa episodio la sua nobile sete di conoscenza e il suo coraggio, fino all'epica fine.

Verso 121

Li miei compagni…

Anche il particolare del v. 126 viene a Dante da fonte geografica greca: era inevitabile «acquistare dal lato mancino» per chi, navigando oltre le Colonne d’Ercole, procedesse verso l'Africa, per poi riavvicinarsi alla costa dopo il Capo Verde (Corti 1993). Picciola è la compagna di Ulisse, picciola la sua orazion, cioè il suo discorso di capo ai propri uomini: le facoltà su cui fa leva sono inadeguate per l’impresa che vuole compiere sono passati gli anni in cui Dante condivideva le idee filosofiche di Boezio di Dacia e dei logici modisti di Parigi, convinti che la felicità per l'uomo fosse raggiungibile su questa terra. adesso egli crede fermamente che la guida divina sia indispensabile alla mente dell’uomo, e che la vera conoscenza, quindi la vera felicità, si possa raggiungere solo in Cielo, nella fusione con Dio. Ecco quindi la condanna verso l'impresa di Ulisse, espressa dall'aggettivo folle riferito, al v. 125, al volo, il viaggio oltre le Colonne d’Ercole. Abbiamo già incontrato questo aggettivo, dal significato ben preciso, tecnico, in Inf. II 35, contrapposto a savio: là Dante si domandava se il mettersi nell'impresa della Commedia non fosse appunto un folle volo, cioè una scelta contraria alle regole a cui giustamente deve sottostare qualsiasi uomo. Nel casa di Dante, in realtà, si tratta di una scelta «savia», perché addirittura dettata da volontà divina. Ma per Ulisse invece è una sterile trasgressione, che necessariamente si conclude con l'inabissarsi in mare della nave inadatta al volo. Entrambi, dunque, come ha osservato Franco Fida (1986), sono viaggiatori: Dante ha scelto Ulisse per rappresentare se stesso, o meglio un aspetto di sé che ha lasciato la sua testimonianza nel Convivio, e che ora, scrivendo la Commedia, ha superato. La metafora del volo come ardua impresa usata al v. 125 ha come fonte primaria il remigium alarum, «il remeggio delle ali» di Dedalo, che vola con ali da lui stesso fabbricate in Eneide, VI 19. Ma l'immagine virgiliana era stata assimilata, prima che da Dante, da «tutta una tradizione ec­clesiastica medievale, che parte da un modello oppositivo spaziale alto/basso, dove il pri­mo termine ha marca positiva e il secondo ne­gativa» e che «contrappone il saggio volo di Dedalo al folle volo di Icaro, che cade giù per­ché si è lasciato eccessivamente prendere dal­la curiositas e non è stato obbediente alle regole impartitegli dal saggio padre [...] Alla sag­gezza di Dedalo si contrappone l'insipienza di Icaro. Il volo verso la scientia sacra è un volo verso l'alto, con le ali o le penne dirette in su; quello verso l'errore è un volo rivolto verso basso, quindi non savio, ma folle» (Corti 1989, 486). Nell'episodio di Ulisse la ripresa evidente del topos carica l’eroe mitico di significati simbolici: il suo volo folle, che come vedremo ai vv. 139-142 è rivolto in basso, è quello degli intellettuali del tempo di Dante che non se­guirono la vera saggezza dei dogmi teologici, «e all’epoca di Dante filosofia laica che parti all'errore non può essere che l’aristotelismo ra­dicale nelle sue forme più devianti» (Corti 1989, 486). E Boezio di Dacia, per cui si veda la nota 112, era un aristotelico radica­le.

Verso 127

Tutte le stelle…

Il tempo e la spazio hanno ormai assunto, nel racconto di Ulisse, dimensioni sovrumane: egli parla in termini di «poli», stelle, orizzonti in­finiti. Non c'è più niente di conosciuto nel ma­re che Ulisse e gli altri stanno navigando, la solitudine è completa, i mesi passano senza segni visibili sulla terra, perché non c'è alcuna terra, e quando questa appare non mastra connotati familiari, perché è la montagna del Purgatorio, non ancora appartenente al mondo celeste, ma nemmeno più parte integrante di quello terreno. Lo lume (…) di sotto da la luna è la faccia dell’astro notturno visibile dalla ter­ra: sono trascorsi quindi cinque mesi dall'in­gresso nell’alto passo, che non è da intendersi come lo stretto di Gibilterra, ma proprio come l’esplorazione folle tentata dal gruppo di Greci. Nonostante il fallimento dell’impresa, l'ultima vicenda di Ulisse è narrata con rispetto e quasi con ammirazione. C'era già stato un altro passo molto arduo da affrontare nell'Inferno, e Dante ne ha sottolineata la difficoltà in I 25-27 (così l’animo mio, ch'ancor fuggiva,/si volse a retro a rimirar lo passo/che non lasciò già mai persona viva). Che il termine torni qui ora, come in un’autocitazione, è segno che tra i due canti c'è uno stretto collegamento, perché la memoria interna di Dante funziona sempre nella continuità di un unico discorso. Risulta da tale analisi come Dante sia conscio che la sua impresa nell'attendere alla Commedia avrebbe potuto essere fallimentare, folle, come quella di Ulisse, cioè dei filosofi aristo­telici radicali: ma il poeta cristiano, a differen­za dell'eroe pagano e degli stessi filosofi lega­ti all'aristotelismo radicale, è tornato in tem­po alla luce della Grazia. Parlare ora del volo di Ulisse rappresenta dunque per l'autore un totale allontanamento dagli errori del passato.

Verso 136

Noi ci al1egrammo…

Le parole finali di Ulisse sono in­tessute di antitesi, nelle quali si riflette quella di fondo tra la presunzione del volare verso l’«alto» senza i dovuti mezzi e il precipitare verso il «basso»: tra allegrammo e pianto (v. 136) tra poppa e prora, che rovesciate si col­legano con il suso e il giù dei vv. 140-141. Secondo Fredi Chiappelli (1989, 123), la frase estrema Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto sarebbe addirittura un rovesciamento del Vangelo di Giovanni, quando Cristo annuncia la prossimità della morte e resurrezione: «Voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza si trasformerà in gioia» (16 20). È questo un rovesciamento del Bene in Male che incontreremo anche nella figura di Lucifero nel canto XXXIV, a conferma che il Male, privo di autonomia e dignità propria, è solo misera parodia del Bene. Il folle volo si conclude, come era inevitabile, con un precipita­re vorticoso verso il basso, per cui la prua della nave (detta primo canto del legno al v. 138), cioè la sua parte anteriore, si inabissa nel ma­re, e la poppa è rivolta dall'innaturale venti (il turbo del v. 137) verso l'alto, ma destinata a sua volta ad affondare nell'Oceano. Un'altra fonte possibile è il De beata vita di Sant'Agastino dove l'autore delinea metaforicamente tre possibili «viaggi» per i filosofi: uno che segue la costa e non se ne stacca; un altro che se ne allontana, ma torna in tempo al porto (come Dante stesso, che ce lo racconta in Inf., I 25-27); infine quello più sciagurato, che prende il largo, ma incontra un mons altissimus dal quale viene una tempesta che fa af­fondate la nave. È evidente la somiglianza del terzo esempio col naufragio di Ulisse, che è quindi allegoria del naufragio della filosofia atistotelico-radicale (Corti 1993). Il finale è epico, con l'enfasi posta sul numero tre (Tre volte la nave deve roteare su se stessa), che

riappare nei momenti più solenni e insieme emozionanti dei grandi poemi classici: per esempio nei tre tentativi che fa Enea di abbracciare l'ombra del defunto padre Anchise (Eneide, VI 700-702). La nave è come un fu­scello di indifesa fragilità, che in un attimo affonda, subendo la giusta collera divina (quella stessa ira che Diomede e Ulisse avevano sem­pre sfidato insieme nella loro vita, come si legge ai v. 57) rappresentata dal turbo che nasce dalla montagna bruna e alta. Negli ultimi versi trionfa il senso della fragilità umana, anzi della sua nullità, nei confronti dell'onnipoten­za divina. Che è chiamata in causa dalla peri­frasi del v. 141, il com'altrui piacque che ritorna nell'autocitazione di Purg., I 133: qui Dante viene ammesso nel Purgatorio per vo­lontà divina, appunto com'altrui piacque, pro­prio a salire quella montagna bruna e alta che anche Ulisse aveva raggiunto con un viaggio in un territorio inesplorato. Ma l'uno opera con l'avallo di Dio, l'altra sfidandolo. Nell'ultimo verso del canto la rassegnazione dell'anima, ormai consapevole del suo errore irrimediabile, è evidente: nel ritmo lento e cadenzato, quasi da compianto fu­nebre, a cui contribuiscono le numerose pause e la ricchezza delle vacali; nelle parole qua­si tutte monosillabiche e bisillabiche. Ed è fe­lice scelta poetica chiudere il canto così, in modo netto, esattamente col chiudersi del lungo monologo di Ulisse.

 

 

Da : Dante ALIGHIERI, La commedia, a cura di Bianca GARAVELLI, Bompiani, Milano, 1993.