Canto I - Note

 

Verso 1

 

Nel mezzo del cammin

 

Il celebre verso iniziale offre la prima importantissima indicazione cronologica, conducen­do subito il lettore nel mezzo dell'avventura di Dante personaggio. Le coordinate spaziotemporali sono infatti fondamentali nel poe­ma: «Lo spazio entro cui si svolge la Com­media è esattamente delimitato: il salto dall';Aldiquà neIl'Aldilà ha un registro perfetta­mente calendariale (...). Periodicamente si fis­sa il punto temporale del viaggio; i parametri delle sfere cosmiche si traducono in uno schema poematico (...). Accade così che qua­lunque passo, anche casualmente desunto, dell';ingranaggio abbia una posizione geometrica­mente descrivibile» (G. Contini, Leggere Dan­te, in Sermonti I, VII-VIII). E scrive in pro­posito Cesare Segre: «Dante non ci fornisce un seguito di flash sull'Aldilà, come i visionari, ma una descrizione così accurata da essere traducibile in un vero atlante dei tre regni in rapporto col globo terrestre» (Segre 1990, 35). Dante autore vuole qui istruirci sul momento in cui il suo viaggio nell'Oltremondo ha inizio: lo fa con una perifrasi, abitudine che diventerà consueta nel corso del poema. Dante personaggio compie un viaggio del tutto rea­le, e come tale in un tempo e in un luogo evi­denziabili con una certa precisione: il percorso comincia nella primavera del 1300, anno in cui il papa Bonifacio VIII aveva bandito il primo giubileo della Chiesa cattolica, importante an­che per il suo valore numerico di multiplo di tre e di dieci, rispettivamente simbolo della Trinità e della perfezione divina. L'indicazione ci è data dal fatto che Dante è nato nel 1265, e secondo le convinzioni scientifiche della sua epoca l'età media dell'uomo era di settanta anni (si veda Conv., IV, XXIII 6-10: «tutte le terrene vite (...) convengono essere quasi ad immagine d'arco assomiglianti (...) lo punto sommo di questo arco (...) io credo che nei per­fettamente naturati esso sia nel trentacinque­simo anno»). Per quanto riguarda il giorno, invece, ci aiuta un altro passo dell'Inferno, XXI 113-114 (1er, più oltre cinqu'ore che quest';otto,/ mille dugento con sessanta sei / anni com­pié che qui la via fu rotta): il venerdì santo del 1300, si è incerti se il 25 marzo n l'8 aprile. Tuttavia, l'importanza del primo verso del primo canto del poema, quindi un canto proemiale, cioè di introduzione all'intera opera, fa pensare che il suo significato sia più ampio e non sia ristretto alla vicenda del singolo Dante, ma riguardi l'umanità intera, di cui la Com­media rappresenta il viaggio simbolico. E interessante in proposito l'interpretazione che del verso offre un intelligente scrittore contemporaneo: «È da discutere che Dante circoscrivesse la durata media della vita a set­tant'anni. Ma ai di là di questa osservazione, Dante non dice affatto trentacinque anni. se noi leggiamo il verso nella sua letteralità, (...) ci imbattiamo in un elemento di simmetria, matematico. Poi viene evocato il cammino, parola che ha un contenuto arcaico e sapienziale. Cammino indica la via, il sentiero. Il cam­mino ricorre nella visione buddista e taoista. È una parola che ha una storia ricchissima al­l'interno della tradizione occidentale e orien­tale.

 

Di nostra vita - l'esperienza riguarda non solamente il protagonista di questo viaggio, ma tutta l'umanità» (Pontinia 1989, 278).

 

ego dixi in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi - Isaiah 38, 10

 

Verso 2

 

mi ritrovai per una selva oscura Nel lin­guaggio insieme realistico e allegorico di Dan­te, la selva oscura è la situazione di partenza dell'umanità nel suo cammino esistenziale:

 

Dante personaggio si è perso in una cupa foresta, mentre !'uomo, arrivato in un punto medio del suo percorso di vita, corre il rischio di perdersi nel peccato, o semplicemente nella confusione oscura della materia. Il verso è, co­me il precedente, di significato generale, poi­ché il messaggio è rivolto a tutti: l'esistenza dell'uomo è paragonabile a una foresta, a un labirinto, in cui le tentazioni sono inevitabil­mente innumerevoli, perché è impossibile che l'anima, chiusa nella prigione materiale del cor­po, possa difendersi perfettamente dal pecca­to, dal quale sarà completamente purificata solo dalla Grazia divina del Paradiso, dopo es­sere passata attraverso l'esperienza di espia­zione del Purgatorio. «Perduta l'originaria similitudine divina, l'uomo degrada sempre più nella scala dell'essere. La sua vita si fa simile a quella delle piante, a quella degli animali privi di ragione, a quella delle pietre: una vita sen­za riposo, in balia della fortuna e del caso, sot­toposta a tutte le influenze cosmiche e naturali che la flagellano; perpetuamente schiava del­le forze occulte che attraversano l'universo dei corpi e ne determinano le leggi» (Casella 1947, 17). Pertanto, la selva è perfettamente adatta a rappresentare il luogo terreno d'ingresso nel­l'Inferno. Il verbo mi ritrovai, che allude a un'assenza della volontà, è usato quindi per mostrare che l'uomo cade nel peccato a volte per debolezza e sviamento del suo senso mo­rale, e non sempre per malvagità d'animo. Non va dimenticata infine una possibile interpre­tazione politica del passo: l'immagine della sel­va rappresenterebbe la corruzione di Firenze, o forse più in generale la condizione di confusa lotta per il potere tra Chiesa e Impero dalla quale come cristiano e come uomo po­litico Dante era profondamente addolorato.

 

Verso 13

 

Ma pol ch'i' fui al piè d'un colle giunto

 

L'im­magine del colle rappresenta allegoricamente la meta a cui conduce la verace via, cioè la via giusta ed esente dal peccato: è la felicità ter­rena, ancora imperfetta, ma che già fa presa­gire la beatitudine completa della presenza di Dio in Paradiso. JI sole infatti sta a indicare la grazia divina, che illumina il cammino dei buoni cristiani e h guida verso la salvezza eter­na. La valle è invece di nuovo la selva del pec­cato. Selva, colle e sole sono posti qui a rias­sumere le tre tappe del futuro viaggio, che con­durrà Dante attraverso tre «stati» dell'anima : peccato, purificazione, beatitudine.

 

Verso 31

 

Ed ecco, quasi ai cominciar de l'erta,

 

Il verso permette il passaggio, netto e im­provviso, a una situazione nuova e imprevista. La forma ed ecco è uno degli stilemi narrativi della Commedia, specialmente in questa fase iniziale, come ha osservato Giovanni Reggio:

 

«Si ripete ben quattordici volte nel poema in questa forma e in principio di verso» (Bosco-Reggio I, 8). L'erta è la salita vera e propria : Dante personaggio sta finalmente per affron­tare il percorso decisivo verso la Grazia.

 

Verso32

 

una lonza leggiera e presta molto,

 

È la prima apparizione del proemio, quella che apre a una breve serie di immagini che potreb­bero appartenere a uno dei bestiari medievali, libri che contenevano descrizioni di animali, reali o immaginari, ognuno dei quali stava a significare un vizio o una virtù umana. La lonza è un felino di grandi dimensioni dal pelo maculato, ma non bene identificabile, che dai commentatori è stato di volta in volta definito come una lince, una pantera, un leopardo, un ghepardo. La parola, che etimologicamente proviene da lynx, lince, è simile ai francese antico lonce, ma anche all'italiano antico loncia, animale nato dall'incrocio «da leone con loncia, o vero da leopardo con leonessa», co­me si legge nel Bestiario toscano (in Studi romani, VIII, 86). È possibile che l'invenzione di Dante sia nata dalla conoscenza diretta di un esemplare di questo felino, che secondo un documento comunale del 1285 era stato esposto» al pubblico in una gabbia presso il Palazzo del Podestà a Firenze. Di quest'idea è lo scrittore argentino J L Borges, che ne parla che ne parla in uno dei suoi racconti (J.L. Borges, Antologia personale, Milano 1965, 119). Leggiera e presta : agile e veloce. La bellezza del pelo e la grazia dei movimenti fanno pensare che con la lonza Dante voglia rappresentare allegoricamente la lussuria, che è, solitamente, il primo peccato giovanile e il primo che si incontra nel viag­gio infernale della Commedia. Secondo altre interpretazioni, essa rappresenterebbe l'invidia, oppure la frode. A sostegno di quest'ultima ipotesi alcuni esegeti citano il passo di Inf, XVII 7 sgg. in cui appare la creatura demo­niaca di Gerione, che a sua volta è descritto con la pelle dipinta di nodi e di rotelle, cioè a macchie.

 

Verso 45

 

ma non si che ... d'un leone

 

Vista indica l'aspetto del leone così come appare a Dante. Tutte e tre le fiere al limitare della selva vengono presentate con primi piani di grande rapidità, a significare l'imprevista velocità con cui le tentazioni del peccato appaiono a contrastare il proposito di raggiungere la beatitudine della vita contemplativa rappresen­tata dal colle. Il leone, secondo l'interpreta­zione più antica e forse più attendibile, è l'emblema allegorico della superbia. Per con­tinuare l'analisi di possibili significati politici del canto proemiale e dei suoi simbolici per­sonaggi, il leone potrebbe rappresentare la Ca­sa di Francia, in particolare Carlo di Valois, che opprimeva il diritto e quindi la giustizia e la libertà. Altre versioni più moderne lo ve­dono invece come allegoria dell'invidia, oppu­re, identificando le tre fiere con le tre disposizioi che 'l del non vole di Inf, XI 81, vale a dire incontinenza, malizia e la matta / bestialitade, come la personificazione di quest';ultima, cioè della violenza incontrollata. Le in­terpretazioni moderne vanno però incontro a numerose contraddizioni, e sembrano aumen­tare l'autorità di quelle antiche.

 

Verso 49

 

Ed una lupa...

 

Sottinteso il verbo «m'apparve». L'immagine della lupa è forse la più efficace, la più' riuscita in questo climax di gravi vizi, di gravi impedimenti al1'ascesa. L'interpretazione allegorica più adatta sembra essere quella della cupidigia, cioè del­l'avidità inestinguibile di ricchezze materiali e di onori terreni. In effetti, questa lupa sug­gerisce l'idea di un'inquietudine, di una sma­nia insaziabile, che porta alla rovina gli uomini (molte genti è un altro gallicismo). Il vizio del­l'avidità è più grave (se si accettano le interpretazioni più antiche già citare per le due fiere precedenti della lussuria e della superbia. In questa Dante discorda dalla tradizione teologica della Chiesa, perché per il suo universo morale la cupidigia è uno dei peccati più di­struttivi per la vira civile, responsabile della corruzione politica e sociale di Firenze e del suo tempo in genere. Infatti, potrebbe rappre­sentare benissimo la Curia papale di Banifacio VIII, che aveva appunto come simbolo una lupa e che Dante con ogni probabilità aveva avuto modo di vedere di persona. Quest'idea spiegherebbe anche il motiva per cui l'anima­le allegorico qui compare al femminile, men­tre nella tradizione biblica (il trio delle tre fiere allegoriche si incontra nel libro di Geremia), il vizio capitale della cupidigia vede un lupo, e non una lupa, a rappresentarla.

 

Verso 67

 

Rispuosemi: «Non omo...

 

Parenti è un latinismo, mentre lombardi erano normalmente nel Medioevo tutti gli abitanti dell'Italia settentrionale, chiamata ap­punto Lombardia (Bruni 1991,11-41). L'esordio di Virgilio, che continua con 1o stessa tono fino al v. 75, è fitto di indicazioni sulla sua vita e sulle sue opere, quasi una breve biografia, ma senza che il poeta latino si nomini mai direttamente. Sarà il personaggio Dante a far­ne il nome, in modo da rivelare così la propria cultura e la propria reverenza nei suoi confronti. Virgilio nella Commedia ricopre un ruolo malto importante: è l'Adiuvante, o Do­cente di Dante, una figura tipica delle "visioni", cioè dei racconti di viaggi mistici, che secondo i loro autori erano stati compiuti real­mente, per volontà divina, ma dalla sola ani­ma dei protagonisti. Infatti, in tutte le visioni il racconto è sempre in prima persona e il pro­tagonista del viaggio non è un vero personaggio, dato che tutto quanto gli accade proviene sempre direttamente dalla volontà di Dio, sen­za il minimo intervento della sua responsabilità. Nel caso della Commedia, come ha di­mostrato C. Segre (Viaggi e visioni d'oltretom­ba sino alla «Commedia» di Dante, ora in Se­gre 1990, 25-48), Dante è riuscito a fondere il genere della visione con quella del viaggio, così da creare un personaggio che dice io ma che compie, per volontà divina, un viaggio au­tentico con il corpo e con sue emozioni e de­cisioni: appunto il peccatore Dante che attra­versa i tre regni. Così come autentico, umano, con una sua personalità, è l'Adiuvante mandato da Dia, appunto Virgilio. Il ruolo di Docente è incarnato alla perfezione dall'autore dell'Eneide, in quanto maestro stilistica e mo­rale di Dante, come si vedrà nei versi succes­sivi, a cui si rimanda anche per le altre ragioni che hanno fatto cadere la scelta della guida in­fernale e purgatoriale proprio su Virgilio. Tut­tavia, egli è la Ragione senza la fede, senza la Grazia divina, quindi non porrà procedere oltre i primi due regni oltremondani. Anche in ambito strettamente artistico la scelta di Vir­gilio appare significativa poiché privilegia un'idea di poesia insieme solenne e capace di incidenza sul contemporaneo, che F. Ferrucci definisce per opposizione con il diverso mo­dello oraziano: «La riscoperta di Virgilio dovette verificarsi nel momento cruciale della traiettoria intellettuale e creativa di Dante. A quel punto Virgilio prese il ruolo di guida che Orazio (...) non poteva assumersi, in quanto la sua poesia (...) non aveva i requisiti di grandiosità epica che allo stesso Orazio sem­bravano indispensabili ai capolavori letterari. Se Orazio è il maestro, Virgilio è la guida. La rilettura di Virgilio dovette precedere di po­co la folgorazione dell'idea della Commedia» (Ferrucci 1990, 75).

 

 

 

Verso 70

 

Nacqui sub...

 

Virgilio nacque ad Andes, oggi probabilmente Pietole, nei pressi di Mantova, nel 70 a.C. e quindi ancora all'epo­ca di Giulio Cesare e visse, fino al 19 a.C., sotto l'imperatore Augusto, da cui fu malto apprezzata come artista. Fu autore di due importanti poemi, le Bucoliche e le Georgiche, ma ai vv. 73-75 si fa riferimento al sua capolavo­ro, l'Eneide, da cui superbo Ilión è una diretta citazione (superbum / Ilium, Eneide, III 2-3). Anche combusto, nel senso di distrutta da un incendio, è un latinismo. L'allusione agli dei del paganesimo (falsi e bugiardi) è una prima spia del carattere del personaggio Virgilio, così come Dante autore lo ha creato: umanamente animato da religiosità e rettitudine, soffre pro­fondamente per non essere stato raggiunto dal­la parola di Cristo, dato che morì prima che il Figlio di Dio fosse mandato sulla terra. Per questa aspetto di Virgilio, Dante è influenzato dall'aura da cui questo autore era circonfuso nel Medioevo: considerato un sapiente e non solo un poeta, addirittura un mago o un indovino, fu sempre letto con ammirazione per le sue qualità non solo letterarie ma anche morali, contrariamente ad altri pur grandi autori dell'età classica. In particolare, i commentatori medievali contemporanei dl Dante vede­vano in Virgilio un precursore dello spirito cristiano, avvertendo soprattutto nell';Eneide un forte senso di stanchezza per il paganesi­mo, gli dei antropomorfi e meschini dell'O­limpo, e una sorta di tensione verso una di­vinità unica e incorporea, simile a quella cri­stiana. È ben nota inoltre l'interpretazione del­l'Ecloga IV come un vaticinio della venuta di Cristo (si veda in proposito D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, La Nuova Italia, Firen­ze 1955). Il fatto poi che Virgilio sia il poeta della massima gloria dell'Impero romano è al­trettanto importante per il tessuto politico della Commedia, dato che nel suo principale poema la guida di Dante celebra la grandezza di Roma capitale del mondo.

 

Verso 79

 

Or se' tu ...

 

La domanda di Dante è retorica : ha già ben capito chi ha di fronte. Tuttavia la forma in­terrogativa esprime io stupore per l'incontro e la profonda ammirazione per il poeta dell'an­tichità, testimoniata anche dalla vergognosa fronte, chinata davanti ai maestro. Dal punto di vista allegorico, il peccatore Dante si sot­tomette in questo modo alla Ragione, di cui ha estrema necessità. La metafora della fonte con­tinua con coerenza stilistica in quella del fiume.

 

Verso 82

 

O de li altri poeti ...

 

Continua la sapiente professione di dipendenza e straordinaria stima da parte di Dante: il verbo cercar dichiara esplicitamente il lungo lavoro di lettura e studio compiuto sull'opera virgiliana. Il termine volume va rife­rito non solo all'Eneide, che in Inf, II 114 Dante afferma di conoscere tutta quanta, ma anche alle Bucoliche, testo che sappiamo con sicurezza essere stato nota al poeta.

 

Verso 85

 

Tu se' lo mio maestro ...

 

Da notare come la solennità del discorso celebrativo nei confronti di Virgilio sia sottolineata dall'anafora ai vv. 85-86 (tu se';). Autore è un latinismo: nel Convivio, Dante stesso spiega che «autore» è definibile chi possiede sicura veridicità e diventa per questo modello da imitare, persona degna di essere creduta e obbedita (IV, VI 5). Il bello stilo è il più alto dei tre teorizzati da Dante nel De Vulgari Eloquentia, cioè quello tragi­co, proprio dell'epica e della poesia di conte­nuto elevato, per esempio la lirica di contenuto morale praticata da Dante stesso. Ricordiamo che gli altri livelli stilistici discussi nel tratta­to linguistico sono quella comico, io stile me­dio che dà il nome anche alla Commedia, e quello elegiaco, cioè basso, umile. La scelta di Virgilio come guida di Dante si può quindi ricondurre a queste ragioni principali: innanzi­tutto la grande ammirazione per la sua arte poetica, che rivela in Dante un aspetto già di anticipazione dell'Umanesimo; il suo essere il «poeta dell'impero» di Roma; la sua fama di grande dotto, che la rende adatto a simboleg­giare la ragione umana nelle sue più alte realizzazioni morali, anche se priva della luce illuminante della Grazia.

 

Verso 100

 

Molti son li animali...

 

Gli animali del v. 100 si possono inter­pretare anche come altre «fiere», cioè altre passioni perverse alle quali la cupidigia spesso si accompagna. Molto più difficile è l'interpretazione del v. 105, su cui i commentatori han­no a lungo indagato senza giungere a una soluzione sicura, perché probabilmente è oramai inarrivabile. Nemmeno chi sia il personag­gio che si cela dietro il velo allegorico del veltro, letteralmente «cane da caccia», è possibile sa­pere con certezza. Quel che è certo è che il peltro è una lega di metalli pregiati che Dante usa per indicare le monete, il denaro, mentre sapienza, amore e virtute del v. 104 indicano le tre persane della Trinità, cioè il Figlio, lo Spirito Santo e il Padre, e quindi l'amore ver­so Dio. Secondo altri interpreti, questo Vel­tro, semplicemente, sarà saggio, entusiasta verso il bene e virtuoso. Si tratta della prima profezia della Commedia, e dell'unica profezia vera e propria, cioè non post eventum co­me le altre che si incontreranno. Nella sua violenta requisitoria contro la corruzione morale e politica del suo tempo, Dante profetiz­za che un uomo riuscirà a distruggerne la fonte, cioè la cupidigia, e ad annullarne la nefasta azione sulla vita degli uomini. Ma, trattandosi appunto di una profezia, Dante usa voluta­mente un linguaggio sibillino, oscuro, per ricalcare quello degli oracoli: il fascina del bra­no sta proprio in questa linguaggio chiuso e indecifrabile, al di là dell'individuazione del Veltro in un personaggio storico ben defini­to. Le interpretazioni arrischiate, comunque, sono numerose: un papa, Benedetto XI, un im­peratore, Arrigo VII, la Spirito Santo, Cristo, Dante stesso, il condottiero Uguccione della Faggiola e il Signore di Verona e vicario impe­riale Cangrande della Scala. Basandosi sul si­gnificato di feltro del v. 105, che sta per "stoffa dozzinale, di bassa qualità", alcuni commen­tatori, tra cui Boccaccio, hanno pensato che Dante volesse nascondere dietro il veltro un francescano, o un pontefice che provenisse da quell'Ordine, o genericamente qualcuno che ne seguisse la regola della povertà, esaltando la sua importanza sociale contrapposta all'a­vidità corruttrice. Secondo altri, feltro è da in­tendersi in senso geografico, quindi con un significato di questo tipo: "tra Feltre nel Ve­neto e Montefeltro in Romagna". Infine, si può ricordare una delle interpretazioni più re­centi, che considera i "feltri" come i panni di stoffa con i quali si rivestivano le urne per l'elezione di alti magistrati, o addirittura di imperatori, uno del quali sarebbe appunto il Vel­tro dantesco.

 

 

 

 

 

Da : Dante ALIGHIERI, La commedia, a cura di Bianca GARAVELLI, Bompiani, Milano, 1993.